Il “compleanno” di Vincenzo Savio: quella volta che i boss delle cosche lo minacciarono

In questi giorni un doppio anniversario ci ricorda il prete salesiano del “sorriso” che diventò vescovo ausiliare al fianco di Ablondi: i 20 anni dalla scomparsa e le 80 candeline sulla torta di compleanno. La denuncia del giro di prostituzione minorile attorno alla stazione
Pre-scriptum: qui sotto trovate il mio pezzo ma, fuori dalle abitudini di questo blog, il ricordo di Vincenzo ha richiamato la testimonianza anche di altri: li metto in un altro post che pubblicherò a brevissimo

di Mauro Zucchelli

C’è chi misura il suo talento come Jep Gambardella in “La grande bellezza”: un dominio talmente predatorio da riuscire a essere il re delle feste ma anche ad «avere il potere di farle fallire». C’è chi invece sa vivere la sua festa come «piena iena di rispetto per la festa degli altri»: lo diceva Pier Paolo Pasolini parlando dei livornesi con grande affetto («Livorno è la città d’Italia dove, dopo Roma e Ferrara, mi piacerebbe più vivere»). Comincio da qui, da un fotogramma minimo, a raccontare chi era monsignor Vincenzo Savio: viene da ridere a chiamarlo così o magari “Sua eccellenza” come avrebbe fatto il prefetto o il comandante dei carabinieri, perché per tutti noi era semplicemente Vincenzo.

Il fotogramma è questo: il vescovo Ablondi sta per diventare ex e l’ultimo saluto lo riserva ai suoi ragazzi, i giovani che per il sinodo bis di metà anni ’90 era andato a cercarsi all’Attias nel mezzo di una battaglia a suon di uova. Siamo all’interno della chiesa dei Salesiani, nella navata centrale hanno tolto le panche e installato un grande paracadute rovesciato. Lì c’è Ablondi che a un certo punto, anche con la goffaggine dei suoi 76 anni (e della malattia), si lancia in un ballo sulle note di “50 special” dei Lunapop. Lasciamo perdere che non è mai esistito un vescovo che prende congedo in una tal maniera anziché fra salmi e Mozart, il punto è: dov’è Vincenzo? Semplicemente lì, accanto a Ablondi come negli ultimi sette anni. Eccoci dentro la “sua” chiesa salesiana, potrebbe fare l’anfitrione e invece si fa comprimario della festa altrui benché anche per lui quello sia il saluto alla gente con cui, in differenti periodi e con differenti ruoli (da seminarista a vescovo ausiliare), ha speso 17 anni della sua vita.

Sia chiaro, questa capacità di stare nella festa degli altri non significa affatto rimpiattarsi. Al contrario, non aveva avuto dubbi quando – lo ricorda Luigi Accattoli, eccellente vaticanista del “Corriere” – era rimasto il solo fra i vescovi italiani a rivendicare le ragioni pacifiste anche dopo la strage dei militari italiani a Nassiriya nell’Iraq incendiato dall’idea yankee che la democrazia si potesse exportare con i carrarmati (perdipiù con trabagai delle prove-fandonia): e se qualcuno si lamentava delle liturgie con la bandiera arcobaleno della pace, pazienza.

Ci sono mille cose da raccontare sugli anni di Vincenzo a Livorno ma forse la chiave sta in quel che era accaduto 16 anni prima, proprio dentro quella chiesa di periferia che, figurarsi, era nata come “Tempio della vittoria” dopo la Grande Guerra e ora invece lui l’aveva contrassegnata con il vessillo arcobaleno del ripudio di ogni guerra. È qui che nel 1984 era stato allestito lo spazio per l’assemblea del Sinodo – in pratica, il “parlamentino” della diocesi – in cui la Chiesa livornese si dava la bussola per progettare il modo con cui testimoniare la propria fede nel Vangelo di Gesù Cristo. Livorno faceva da apripista a livello nazionale: arrivarono giornalisti da mezza Italia. Era una stagione in cui la voglia di partecipazione pulsava nelle vene della società civile, e anche all’ombra dei campanili. Se il vescovo Alberto Ablondi era il pastore alla guida della comunità, don Vincenzo era il regista della “macchina” della discussione in tandem con altri preti come don Paolo Razzauti che della commissione organizzativa era il responsabile. Un dibattito tutt’altro che felpato: alla fine salterà fuori l’idea di ricentrare sugli ultimi la pastorale diocesana.

Ho accennato all’esperienza del Sinodo diocesano ma chi non l’ha vissuta in prima persona forse non si rende conto di quel che è stato: non è il vescovo che, da solo nel chiuso delle sue stanze episcopali o tutt’al più prendendo direttive dall’alto, stila il piano d’azione per la diocesi. Al contrario, se ne discute in assemblea: e se pensate che fossero lì tutti buoni con la coda fra le gambe a dar retta al prete di turno, non avete proprio respirato quel clima. Tant’è che finì senza schieramenti precostituiti come in Parlamento ma con una chiara divisione fra chi era più legato agli usi del passato e chi voleva sperimentare il nuovo. Finirà a maggioranza. Per dirne una: in ballo anche l’indicazione della Chiesa livornese dell’obiezione di coscienza come opzione caldeggiata ai giovani. Non passerà ma resterà il forte impegno ecclesiale di Livorno sul fronte del servizio civile.

L’esperienza sinodale è stata tanto più importante per Vincenzo Savio. Lo dice la sua biografia: è nella squadra che affianca Ablondi per far decollare il Sinodo del 1984 che vede Livorno nel ruolo di battistrada a livello nazionale. Quando per la rotazione obbligatoria dei parroci nella congregazione salesiana deve lasciare Livorno, il cardinale Piovanelli inventa il modo per farlo arrivare a Firenze: nel 1987 decolla il Sinodo della Chiesa fiorentina, e Savio è nell’équipe che ne ha la regia operativa. Il terzo Sinodo lo fa partire nel ’96 ed è a Livorno da vescovo ausiliare che mette in moto il sinodo dei giovani (ma fatto con uno stile che vuol evitare l’ennesimo predicozzo: fate così, fate cosà). Il quarto è a Belluno nel 2002, dove era stato nominato vescovo titolare 18 mesi prima.

Per capire che l’impegno ecclesiale non è un “volemose bene” che mette d’accordo il diavolo e l’acquasanta, basta andare a un episodio che a metà anni ’70 capitò proprio a Vincenzo: appena tre mesi in un piccolo borgo calabrese dalle parti di Cutro (do you remember la strage di migranti in mare?). Ma quando mai sposti un giovane prete e poi gli cambi destinazione poche settimane dopo? Vabbè, si sapeva che i suoi modi appassionanti avevano scosso il torpore di quella parrocchia: ma aveva avuto un successone, la chiesa non era più il posto per quattro vecchiette ma in breve si stava popolando di nuove energie, i giovani tornavano alla messa per ascoltare quel prete che non si limitava alla solita giaculatoria del “Gesù ci vuole bene”. Possibile che un nuovo trasferimento in fretta e furia arrivi proprio mentre la parrocchia sta rinascendo? Me l’aveva detto anche Vincenzo tanti anni fa ma dovevo essere “addormentato”, lasciai cadere e a lui non parve vero. Doveva essere accaduto qualcosa di strano.

Comincio a unire i “puntini” il giorno del 2016 in cui monsignor Bregantini, nato come prete in Calabria e divenuto vescovo della Locride, ricorda che la Chiesa si deve inginocchiare a Gesù Cristo, e non ai boss che vogliono far passare sotto casa loro la processione del paese così da avere l’ossequio della folla (e confermare il loro potere sul paese). Anzi, lui che era per la linea durissima contro i boss ‘ndranghetisti, segnalava l’eroismo di preti che si ritrovavano poi a tu per tu con i capoclan nella piazza del paese.

Non sarà mica capitato qualcosa del genere anche a Vincenzo? Quando era in Calabria a 32 anni e con il suo entusiasmo innovativo stava scuotendo una comunità abituata a ripetere i riti di sempre. L’indizio me lo offre l’identikit che di Savio traccia con accuratezza Antonio Miscio, più di 400 pagine messe insieme ascoltando oltre cento testimoni. Dice che la voglia di Vincenzo di valorizzare la devozione popolare ma senza piegarsi ai mammasantissima aveva creato qualche malumore di troppo. «Un giorno qualcuno lo caricò in macchina e in un posto isolato, senza tanti preamboli, come si doveva fare la festa, come non si poteva cambiare o mettere in discussione  niente». Aggiungendo poi: «Si parlò di minacce a suon di mani».

Una formula che dice senza dirlo fino in fondo. Provo a sentire altri: sono d’accordo nell’indicare il rischio concreto che Vincenzo venisse ammazzato dalla cosca del paese, un “ultimo avvertimento” molto pesante. Uno dei miei interlocutori dice di più: gli sgherri del boss locale non glielo dicono solo a brutto muso, lo portano in un posto isolato e lo riempiono di botte. I suoi superiori, che forse l’avevano mandato lì per “punizione” perché Vincenzo aveva posizioni pastorali troppo avanzate, devono portarlo via alla svelta e spedirlo altrove prima di ritrovarselo ammazzato.

Anche a Livorno  non rinunciò a “mettersi nei guai”. Questa storia credo che non la conoscano in molti: riguarda il fatto che, attraverso i contatti che riusciva a stabilire con chiunque al prim’acchito, era venuto a sapere che attorno alla stazione ferroviaria di piazza Dante, nel territorio della sua parrocchia, era cresciuto un giro di prostituzione minorile maschile. Non l’ho accompagnato io ma so che era andato a fare sopralluoghi insieme a qualcuno. Insomma, un po’ le confidenze raccolte gettando l’amo fra qualcuno dei suoi ragazzi dell’oratorio e un po’ quel che vedeva durante questi giri notturni, con un piglio a metà fra 007 e padre Brown mette insieme una indagine che cerca di far emergere quel che finora era rimasto nascosto. A maggior ragione – ma qui il mio ricordo si fa più confuso – dopo che un giovanissimo forse fra quelli era stato ritrovato morto: una morte “naturale”, tale da non destare sospetti particolari, ma assurda e incongrua. Vincenzo prese quel che aveva raccolto e in un colloquio riservato lo consegnò nelle mani del sindaco, credo si trattasse di Alì Nannipieri.

Del “suo” territorio voleva «appropriarsi fisicamente», dice Miscio nel libro edito da Elledici (lo trovate anche a Livorno alla biblioteca dei Bottini dell’Olio e in quella della curia, a Collesalvetti alla biblioteca municipale). Un po’ come quando, nel turbinio di sentimenti della prima partenza da Livorno, mi disse che lui la sua gente «vorrei mangiarmela per portarmela con me». In effetti, preferiva girare per le strade la sera («con la possibilità e la sorpresa di incontrare qualcuno che di giorno era più difficile incontrare e fermarsi a domandare, a fare quattro chiacchiere»). Ma una di quelle sere al rientro a casa trova steso davanti al portone della chiesa un clochard d’una ventina d’anni, tedesco, «febbricitante e tremante, con gli occhi semispenti ormai rassegnati alla fine». È arrivato lì a morire, Vincenzo gli apre la porta di casa sua, lo mette a letto, lo copre con una coperta e gli dà da bere ma i tremori non scompaiono: Vincenzo dormirà per terra su una coperta ma a singhiozzo, per andare ogni tanto a vedere quel poverocristo come sta. L’iomdomani mattina chiama un medico amico: le medicine hanno acciuffato il clochard in zona Cesarini, la febbre cala. Tempo una settimana e il tipo scompare, nessuno saprà mai il suo nome. E nessuno saprà mai nemmeno dell’episodio se non nel cerchio dei collaboratori più stretti che lo renderanno noto a distanza di oltre vent’anni di fronte al taccuino di Miscio, poi ripreso nel blog di Accattoli.

Vincenzo, l’avevo conosciuto appena arrivato a Livorno: i Salesiani erano la mia parrocchia, abitavo a due passi dalle baracche di Coteto. Finalmente a metà anni ’70 stava per esser smantellata l’ultima traccia degli alloggi di fortuna per gli sfollati dei bombardamenti. Ci sarebbe da rammentare che c’erano voluti più di trent’anni ma non stiamo qui a sottilizzare. Ma il problema è anche un altro, e so che lui lo segnala al Comune: ben venga che una parte delle nuove case popolari di Salviano venga destinato ai baraccati di Coteto ma sarebbe opportuno sparpagliare queste famiglie in tutto il nuovo quartiere. Il motivo: se non si fosse gestita l’integrazione nella convivenza al di fuori delle logiche da baraccopoli, sarebbero nati problemi di adattamento alle regole. È quel che poi accadrà: sono stati concentrati in tre blocchi, e quella zona è diventata il luogo record dei mancati pagamenti degli affitti (e dei guai nella convivenza nella nuova situazione edilizia). Con un insegnamento: le fragilità sociali non si “curano” solo fornendo strutture ma anche sostegno personale mediante relazioni.

Quell’esperienza nata attorno al bisogno di casa, lo porterà più tardi a alzare il tiro contro l’ingranaggio di mercato che stava dietro un tal problema, visto che secondo i dati emersi dal censimento Istat c’erano allora migliaia di alloggi vuoti. Mi chiamò, e stavolta non era per far quattro chiacchiere fra amici («mi raccomando, vieni col tuo taccuino da cronista»): la “bomba atomica” era l’annuncio che non un gruppuscolo extraparlamentare marxista-leninista bensì il parroco di una delle comunità ecclesiali più grandi della città apriva la porta alla requisizione di alloggi sfitti per affrontare l’emergenza abitativa.

Il Vincenzo della malattia no, non l’ho conosciuto: ma so che aveva testimoniato la fragilità umana raccontando apertamente insieme a Ablondi la malattia in un convegno in Val di Chiana. Malati tanto il vescovo che l’ausiliare. La sto rimuovendo ma per me era impossibile che a Livorno Vincenzo si ammalasse: era Superman. Eppure anche lui aveva dovuto fare i conti con l’ostilità dei confratelli preti: una dozzina di loro aveva firmato una lettera per dire che il successore di Ablondi avrebbe dovuto essere un toscano. Tradotto: siccome proprio Ablondi le aveva inventate di tutte per avere la certezza che Savio avrebbe preso il suo posto dopo le dimissioni per raggiunti limiti di età, quella sottolineatura dell’origine toscana serviva per dare l’altolà alla nomina di Savio. Ho sentito chi dovevo sentire e a distanza di tempo mi pare di esser giunto a una conclusione: quella lettera dei dodici preti avrebbe potuto non contare granché agli occhi della Congregazione vaticana, ma pesava su di lui. Una dichiarazione di guerra appena prima della nomina significava che avrebbe rischiato di ritrovarsi in una Chiesa ridotta a un Vietnam. Meglio di no, disse e accettò Belluno: prendendo confidenza con il territorio proprio fisicamente, tante scarpinate fra paesi e montagne quando era ancora uno sconosciuto.

La malattia di Vincenzo mi piomberà sulla scrivania del giornale dopo che l’annuncio pubblico di questa complicata forma tumorale l’aveva portato a vivere i suoi ultimi mesi in mezzo alla gente che sapeva della grave patologia. Dunque, incontrando alla chemio o nelle corsie d’ospedale i malati come lui, alle cresime o nelle messe in cattedrale. Con quel volto sempre più smagrito e sfinito, lui che aveva le sue guanciottone per reggere quel sorriso che era il biglietto di presentazione. Per entrare in relazione con gli altri, lui e il suo Cristo.

Lo racconta Umberto Folena nel libro che ha dedicato a Vincenzo (“Il vescovo e Margherita”). Il Nostro non conosce quella bambina di otto anni e nemmeno i suoi genitori, potrebbe essere uno dei tanti biglietti di conforto che gli arrivano dalla gente di Belluno dopo che ha rivelato la malattia e ha deciso di viverla in piazza. Margherita gli scrive: «Non perdere il tuo sorriso». Lo sapeva benissimo che quel sorriso preventivo era l’ “arma” con cui si predisponeva alla relazione con chi aveva davanti. Ma da quando erano arrivati la diagnosi e i dolori lancinanti si era reso conto che il sorriso era annebbiato, si era fatto spento. E se lui, uomo di fede, non era in grado di testimoniare gioia, la gente come avrebbe potuto credere a quel Dio che lui non portava più sul volto? Quelle poche parole di Margherita sono state il detonatore per far esplodere la voglia di vivere anche nella malattia. E chissà se è solo una buffa coincidenza che abbia avviato lui l’istruttoria della causa di beatificazione di papa Luciani? È il papa che, fra Paolo VI e Wojtyla, «ha sorriso solo 33 giorni», come titolava a tutta pagina “Il Tirreno”: assurdo che un papa sia amato per il suo sorriso? Non credo ma forse è la testimonianza più straordinaria che ha lasciato Albino Luciani. E, sulla sua scia, Vincenzo Savio.

Nelle foto, dall’alto:: le immagini sono tutte tratte dal prezioso libro di Antonio Miscio dal titolo “Vincenzo Savio. La meravigliosa avventura di un vescovo sorridente”). La prima è Vincenzo accanto a Nello Gemignani, maestro della Libreria salesiana di Firenze. Poi: in montagna con il vescovo Ablondi; il saluto ai fedeli dopo la consacrazione episcopale nel ’93; con Ablondi da papa Giovanni Paolo II; con il cappello da alpino saluta i fedeli all’insediamento nella diocesi di Belluno (se vi fossero problemi di diritti, vi preghiamo di segnalarlo nei commenti così che provvederemo immediatamente a toglierle)

2 risposte a “Il “compleanno” di Vincenzo Savio: quella volta che i boss delle cosche lo minacciarono”

  1. Avatar bianchimassimo
    bianchimassimo

    Grazie e tanti saluti

    "Mi piace"

  2. […] Il “compleanno” di Vincenzo Savio: quella volta che i boss delle cosche lo minaccia… […]

    "Mi piace"

Lascia un commento