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Contrariamente a quanto si usa in questo blog, qui non sono io a scrivere: apro l’uscio della mia “casa di carta (virtuale)” alla testimonianza su don Vincenzo Savio da parte di alcuni fra quanti lo hanno conosciuto bene.
di Davide Cecio
Mettere insieme i ricordi di Vincenzo è un po’ come cercare di riordinare la scarpiera di una donna. Parto dai primi ricordi, siamo a fine anni settanta, direi tra il ‘77 e il ‘79, e la comunità salesiana si ritrovava in una vecchia colonia al Calambrone.
Ho memoria di due episodi. Comincio da quello della piscina vecchia e quasi vuota. All’epoca ero piccolo e gracilino e avevo la presunzione di voler giocare coi ragazzi più grandi. Gli amici di mio fratello: i Cei, i Mannelli, la Mannucci, tanto per citare la nidiata della futura classe dirigente della città. Finii dentro quella vecchia piscina diventata uno stagno per i ranocchi. I ragazzi mi fecero uno scherzo: mi lasciarono solo e non riuscivo a risalire. Credetemi, ne avverto ancora la paura e ricordo che fu Vincenzo a trovarmi: si calò con l’unico vestito che aveva e mi trasse in salvo.
Vincenzo mangiava spesso con la mia famiglia, adorava le melanzane a fungitiello e le acciughe alla povera che mia mamma preparava in abbondanza e io finivo per dormirgli in collo durante la riflessione comunitaria post-cena. Ho una foto bellissima perché Vincenzo mi guarda e io dormo tra le sue braccia sicuro, credo che l’abbiamo mandata alla famiglia di Vincenzo per la pubblicazione del libro.
Ricordo Vincenzo a cena a casa nostra con Norina, vedova e bravissima donna che curava l’amministrazione della parrocchia, qualcuno se la ricorda? Ci parlò della sua volontà di partire in missione in Camerun: eravamo tutti contrari, Vincenzo era santo e “vescovo”, ma con le mani era molto più pratico e spicciolo don Giovanni Rizzato che presidiò la missione salesiana a Yaoundé. Fu un momento quasi di crisi vocazionale, come se cercasse un’identità che poi si rivelò per quello che era, ben presto divenne ausiliare e poi vescovo. Lo ricordo, come tutti impegnato nel Sinodo, in campeggio: è rimasto celebre lo scherzo del campanile e lo rammento col cappello da muratore a tingere la cripta salesiana nei nostri sabato sera.
Passarono gli anni dell’adolescenza e presto sentii il desiderio dell’impegno in politica. È stato lui a orientarmi verso Lorenzo Mannelli: io mi iscrissi giovanissimo al Partito Popolare di Martinazzoli.
Se mi chiedete il ricordo più bello, ripesco dall’album degli amarcord il momento in cui venne da ausiliare a fare il saluto al consiglio comunale. Lamberti mi chiamò e mi chiese di portare io il saluto dell’assemblea. Lo sentii come un onore, fu un discorso intenso e ho il ricordo di Vincenzo che se la rideva compiaciuto. Al termine andammo a mangiare un 5 e 5 di Gagarin sulle spallette dei Fossi: io ancora in giacca e cravatta, lì sulla spalletta c’era anche monsignor Ablondi.
Ma la vita non è tutta rose e fiori. Ecco qual è stato invece il ricordo per me più doloroso: è legato alla sua malattia e ai miei arresti domiciliari. La storia, se fosse possibile, ve la dovrebbero raccontare altri: come Otello Chelli che ci incrociò me, il vecchio Ablondi claudicante e Italo Piccini. Insistettero perché mi facessi vedere con loro in centro: una breve passeggiata pubblica in via della Madonna. Mi dissero: «Ti devono vedé con noi, senza vergogna».
Nella nostra ultima telefonata mi rammentò proprio quell’episodio: era in contatto con don Paolo Razzauti che lo teneva aggiornato. Fra le sue ultime raccomandazioni a don Paolo, quella di sostenermi in quel drammatico momento (cosa che lui fece e continua a fare). Ecco, di quella vicenda dopo anni e disastri ho perdonato quasi tutto: quasi, perché non ebbi modo di andarlo a salutare di persona; lo vidi chiuso in una bara il giorno del funerale confuso tra tanti, io che volevo un momento esclusivo con lui. Ricordo il pianto dirotto quando una giovane parrocchiana si mise a suonare al piano un pezzo di Einaudi. Sì, ho perdonato ma dimenticato no: mi è stata scaraventata addosso una montagna di dolore, un iceberg di sofferenza. Resta il fatto che, come avrebbe detto Vincenzo, anche nel dolore rimango «ancora entusiasta della meraviglia di Dio».
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Nelle foto: Vincenzo a una gara di corsa nei sacchi
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