Fenzi: mi ha fatto capire che la Chiesa ha già spazzato via il concetto di “guerra giusta”

Contrariamente a quanto si usa in questo blog, qui non sono io a scrivere: apro l’uscio della mia “casa di carta (virtuale)” alla testimonianza su don Vincenzo Savio da parte di alcuni fra quanti lo hanno conosciuto bene.

di Paolo Fenzi

L’avventura di Vincenzo a Livorno si può distinguere in due fasi. La prima, quando arriva a Livorno e si occupa dei baraccati di Coteto. La seconda, quando diventerà uno dei protagonisti del Sinodo diocesano: lo farà spalancando alla gente le porte della Chiesa.

Il Sinodo era diviso in quattro parti: la Parola, i sacramenti, la catechesi e il rapporto Chiesa-mondo. Finalmente si cercava di disegnare una relazione più aperta fra la comunità ecclesiale e quella civica. Con concetti nuovi che soffiavano anche all’ombra dei campanili: laicità, dialogo, confronto, rispetto delle posizioni altrui.

Ricordo con grande affetto tutta quella fase di preparazione al Sinodo: un cammino bellissimo. Arrivarono a Livorno tante persone che in quel momento erano l’avanguardia: le cercò il vescovo Ablondi ma anche e forse soprattutto don Vincenzo Savio insieme al gruppo che aveva la regia di questa svolta ecclesiale. In quel momento l’avanguardia erano, per dirne alcuni, Paola Gaiotto De Biase, Pietro Scoppola, Luigi Bettazzi: tante soggettività che contribuivano a dare una prospettiva di apertura alla Chiesa innervata di spirito conciliare. Vincenzo ne è stato l’interprete principale. Ero un ragazzo giovane giovane, c’era in quel team anche Lorenzo Mannelli: non so come descriverla se non come una esperienza incredibile, magnifica.

Vincenzo mi aiutò anche nella relazione che dovevo presentare a un incontro degli universitari cattolici (Fuci) che ogni quattro anni si teneva a livello europeo. Il cuore della relazione era la pace, dovevamo fare i conti anche con il concetto della cosiddetta “guerra giusta”: mi spinse a rendermi consapevole che nel pensiero della Chiesa quell’idea era stata superata con la “Gaudium et spes”: parliamo del 1984, era un concetto che neanche la Chiesa, nelle sue differenti articolazioni, si era resa conto di aver mandato in soffitta con l’elaborazione dei documenti-chiave del Concilio. A quell’incontro portai una argomentazione che era ancora controcorrente ed era il frutto di lunghe chiacchierate: l’avevamo fatta a metà.

Un altro punto fondamentale è stato il suo aiuto a farci appassionare alla politica come forma di servizio. Eravamo soprattutto io e Lorenzo Mannelli, lui in modo ancor più forte e deciso di me. Ci insegnò a capire la politica come il tentativo di dare un volto al futuro, di disegnarlo: una valutazione razionale di quel che era possibile ma mantenendo anche una certa qual sofferenza per quel che realisticamente possibile non era. Forse questo secondo aspetto, questa tensione verso il dopodomani, era la cosa che gli interessava di più.

Voglio a questo punto richiamare l’attenzione sul concetto di laicità: importantissimo, nella sua visione del mondo. Per capirci: diceva che c’è una fede religiosa e c’è una fede laica. La fede laica si interrogava con autonomia e distinzione rispetto a quella religiosa. È un atteggiamento e una direzione che ho fatto mia anche negli anni a seguire.

Chiudo con la frase che mi lasciò una delle ultime volte che ci si vide: ero già impegnato in politica, lui mi dette questo biglietto con una frase del teologo Boenhoffer. Come tutte le cose per me importanti, lo conservo dentro la Bibbia: «Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare? Ma semmai: quale può essere la vita della generazione che viene? Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde, anche se provvisoriamente molto mortificanti».

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