Smiraglia: “Accetto la nomina a vescovo ma solo se mi lasciate giocare ancora con i ragazzi”

Contrariamente a quanto si usa in questo blog, qui non sono io a scrivere: apro l’uscio della mia “casa di carta (virtuale)” alla testimonianza su don Vincenzo Savio da parte di alcuni fra quanti lo hanno conosciuto bene.

di Filippo Smiraglia

L’innata ilarità e giovialità salesiana di Vincenzo Savio traspariva da gesti e parole in grado di smorzare le situazioni più delicate. A tal riguardo mi torna alla mente un episodio che “fotografa” il momento in cui nel 1993 a 49 anni viene nominato vescovo ausiliare di Livorno. C’è un passaggio formale da compiere – l’accettazione della nomina – presentandosi davanti alla Congregazione dei vescovi a Roma: dinanzi a tutti quei prelati notabili, così impettiti nelle loro talari, saltò fuori la sua affabilità e la sua naturalezza, essendo per natura allergico a certi formalismi e a certi protocolli.

Il copione fila liscio finché il cardinale prefetti gli pone la domanda di rito e lui doveva rispondere: «Sì, accetto». Invece no: inizia bene («sì, accetto») poi però gli scappa: «Accetto a una condizione». Tutta la nomenklatura lo guarda come un matto: ci mancava solo questo tipo qui. Il gelo nella stanza. Figuriamoci, lui giovane salesiano figlio del Concilio che voleva dettare condizioni sulla nomina a vescovo: altri avrebbero fatto carte false e questo tipo si mette a fare il provocatore davanti a millenni di storia. Il cardinale vorrebbe mangiarselo ma si limita a dire: «Sentiamo questa condizione». E Vincenzo Savio spalanca il sorriso e gli occhi luminosi e vivaci: «La mia condizione è questa: che una volta fatto vescovo, io possa continuare a giocare a guardie e ladri con i miei ragazzi».

L’altra storia che ho in serbo è datata domenica 4 febbraio 2001: è appena terminata la cerimonia di ingresso del vescovo Coletti, eccoci con le suore e don Pietro Ceretti nel parcheggio del vescovado verso le 23 per l’ultimo saluto a Vincenzo Savio. Avrebbe definitivamente lasciato Livorno dopo una vita trascorsa tra noi. L’aria era gelida, il cielo carico di stelle e l’atmosfera era mesta. Con ognuno di noi parlò, a ognuno di noi riservò un abbraccio. Occhi lucidi di fronte a una macchina caricata in modo spropositato. Col motore acceso si fermò al cancello della curia per una ultimissima frase: una battuta per non lasciarci a nuotare nella mestizia («Più che la macchina di un vescovo sembra l’auto della famiglia Brambilla»).

Mi interessa qui mettere in evidenza anche un altro aspetto della testimonianza  di don Vincenzo. Ma nell’ultimo pezzetto di vita, quando ormai il tumore ne ha messo alle corde il fisico. Trascrivo un pezzo della sua preghiera: «Un Volto. Dall’eterno si prolunga nei miei piccoli giorni. Un volto. Un Dio che ha cercato l’ uomo./ I suoi occhi. Dio ne ha fatto il luogo dell’ accoglienza e della tenerezza./ Le sue lacrime. Scendono su un corpo fatto di faticosa speranza, in attesa di trasformarsi nella risurrezione». C’era una impronta della “sua” Livorno nell’icona davanti alla quale il vescovo Savio pregava a Belluno nei suoi ultimi giorni: è il “Volto del Cristo coronato di spine”, opera di Beato Angelico.

Nel modo con cui ha guardato in faccia la malattia, nella sofferenza non nascosta, vi è una testimonianza di fede che ha lasciato il segno nelle comunità che ha incontrato durante l’arco del suo ministero episcopale. Eccolo lì, un vescovo così efficiente e preparato a guidare la sua Chiesa dal letto del dolore: un salesiano  vulcanico svuotato da un male incurabile in pochi mesi. Era fermato  per strada da gente sconosciuta: «Sono malato anch’io mi dica come fa lei a sperare». Alla sorella confidò: «Ho tante cose da fare, le farò da un’ altra parte».

Chi ha avuto il privilegio di incontrarlo nei giorni prima dell’agonia, ha contemplato un uomo completamente trasfigurato: per avvicinarsi a lui e ascoltarlo bisognava inginocchiarsi. Dice uno dei suoi sacerdoti: «Mi sono trovato nella stessa posizione del giorno della mia ordinazione sacerdotale. Ma stavolta non c’era un vescovo bardato che mi faceva promettere filiale rispetto. C’era un uomo che mi ripeteva tra le fitte del dolore: “Ti voglio un’ infinità di bene, dì alla tua gente che li amo e li ringrazio”».

Nella foto: Vincenzo dà il cinque a un ragazzino

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