Mannelli: era un religioso ma aveva scelto di stare nel cuore della diocesi

Contrariamente a quanto si usa in questo blog, qui non sono io a scrivere: apro l’uscio della mia “casa di carta (virtuale)” alla testimonianza su don Vincenzo Savio da parte di alcuni fra quanti lo hanno conosciuto bene

di Lorenzo Mannelli

Tanti altri avranno sottolineato episodi, vicende, situazioni in cui emerge il carattere di Vincenzo Savio, salesiano bergamasco diventato così “livornese”. Io credo che vada sottolineato un aspetto che forse sfugge perché dato per naturale: il suo legame con la parrocchia, la diocesi, il territorio. Basterebbe ricordare che apparteneva a una congregazione religiosa e di solito le congregazioni hanno non solo una propria autonomia ben rivendicata e perimetrata ma anche ne sono assai gelose.

Lo ricordo prima di tutto in occasione dell’emergenza per il terremoto dell’Irpinia: la parrocchia dei Salesiani divenne il quartier generale dell’iniziativa della diocesi messa in piedi in tandem con la Caritas diocesana guidata da don Gino Franchi. La cripta della chiesa era un grande cuore pulsante di generosità: un centro raccolta in cui ciascuno offriva quel che poteva e come poteva, comprese le vecchiette ma anche i giovani alle prime armi come me. E a Torella dei Lombardi andammo non come Salesiani, ma insieme come parrocchia salesiana, Caritas diocesana e città di Livorno.

Qualcosa del genere avvenne anche per il Sinodo del 1984: anche in questo caso, non ha badato ai recinti della congregazione religiosa ma ha “giocato” con la maglietta della diocesi. Anche in questo caso al fianco di Ablondi, è stata la storia di una amicizia e di un rapporto filiale che rivedo pure in un piccolo fotogramma occasionale, al tempo stesso sorridente e toccante per chi lo sa leggere nel profondo. Partiamo dal fatto che il vescovo Ablondi aveva problemi alle gambe e gli avevano consigliato come terapia di camminare in acqua: eccoli, quando la stagione si fa un po’ più dolce, alla colonia salesiana del Calambrone andare avanti e indietro infinite volte parlottando di quelle che sarebbero diventate le idee-guida di quel cammino sinodale che aveva avuto pochi precedenti in tutta Italia. Ad esempio, quell’idea del passaggio “dalla casa alla tenda”…

Ma c’è anche un episodio sorridente che risale a qualche settimana prima: Vincenzo che accompagna il vescovo in mezzo ai banchi del “mercatino del venerdì”, credo allora fosse in via Galilei, per comprarsi il costume da bagno.

Altro capitolo, la missionarietà salesiana. A un certo punto, il rettor maggiore Viganò indica la prospettiva di portare in Africa l’azione dei salesiani. Non so se sia stato deciso da altri o, e non mi stupirebbe per niente, sia stato lui a farsi avanti: fatto sta che Vincenzo parte in avanscoperta. L’aveva fatto anche in occasione del terremoto in Irpinia. Aveva fatto suo il motto della Gioc, la “gioventù operaia cattolica”: vedere, giudicare, agire. Dunque, prima di tutto andare a vedere. Destinazione Camerun: non parliamo di una piccola scelta, ancora oggi c’è una radice di salesiani “livornesi” laggiù, ad esempio con don Alcide Baggio (ora credo sia in Congo). Insomma, Vincenzo è l’ “esploratore”: non dice “andateci voi” ma “intanto vado io a vedere”. Al ritorno dà la disponibilità a partire definitivamente, la missionarietà è un orizzonte che lo attrae: poi le cose andranno diversamente, ma lì per lì per Ablondi è un colpo.

Sono anche gli anni in cui –  nel 1982 per la festa di san Giuseppe – papa Wojtyla viene in visita a Livorno: ma prima, a Rosignano, si incontra con il consiglio di fabbrica della Solvay. Un delegato sente in tutta evidenza l’importanza di avere un pontefice in quella sala di operai e al tempo stesso non ha dimestichezza con le formule cerimoniali, dunque se ne esce con il massimo dell’omaggio che in quel momento gli detta il cuore: al papa si rivolge chiamandolo “Maestà”.

Tornando indietro di qualche tempo, si potrebbe risalire a quando era ispettore salesiano don Sangalli: credeva molto in Savio e in quei mesi c’era da mandare qualcuno a Livorno al posto di don Orsi. Don Sangalli presenta la designazione al vescovo Ablondi, che prende informazioni: Vincenzo veniva da Savona dove si era scontrato cento volte con il suo vescovo perché lui era un po’ troppo avanzato e un po’ troppo conciliare. Evidentemente ad Ablondi arriva all’orecchio il giudizio di quel confratello che stronca Vincenzo, perciò Savio arriva a Livorno ma come “parroco in prova”. Quando poi è del tutto evidente che aveva ragione don Sangalli e il vescovo Ablondi non aveva più nessun dubbio, si doveva fare l’ingresso ufficiale: solo che a quel punto sembrava un po’ assurdo e non se ne fece di niente. Tradotto: non c’è mai stato nessun ingresso ufficiale al Sacro Cuore.

Un altro fotogramma lo pesco all’indomani di quel giorno in cui la sezione del Pci di Colline decise di fare volantinaggio davanti ai Salesiani alla fine delle messe domenicali, mi pare fosse in occasione di un referendum, forse quello sull’aborto nel 1981. Vincenzo aveva indossato la tonaca nera della talare solo all’inizio del suo mandato da parroco, giusto per farsi prendere come punto di riferimento anche dagli anziani, poi aveva sempre indossato il clergyman. Ecco, quel giorno ripesca l’alta uniforme da prete tradizionale e se ne va bel bello a parlare dai dirigenti comunisti per lamentarsi: così non va, non fatelo mai più.

L’ultima sottolineatura la dedico a un periodo poco noto di Vincenzo Savio, è quello che trascorre a Roma a studiare alla metà degli anni ’80 dopo il Sinodo livornese. Voleva ricominciare a studiare, ma non in astratto o per cultura generale: stava vedendo arrivare le novità dell’informatica, eravamo solo ai primissimi albori della nuova era del computer ma aveva intuito la cosa giusta: avrebbe rivoluzionato le nostre esistenze e non si poteva accontentare di una pastorale aggiustata a orecchio con un po’ di buon senso. C’era bisogno di innovare: qualcuno lo stava facendo con i chip, qualcun altro avrebbe dovuto farlo con la fede, il Vangelo, il cuore.

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