Razzauti: Livorno lo ha amato ma non fino in fondo, ora da lassù ci protegga

Contrariamente a quanto si usa in questo blog, qui non sono io a scrivere: apro l’uscio della mia “casa di carta (virtuale)” alla testimonianza su don Vincenzo Savio da parte di alcuni fra quanti lo hanno conosciuto bene

di don Paolo Razzauti

Vincenzo Savio è stato per me un amico, un vescovo, un pastore. L’ho conosciuto quando era qui fra noi come seminarista e ho apprezzato il lavoro che faceva. L’ho incontrato poi come parroco dei Salesiani: ne è nata una grande amicizia e un grande rapporto di stima. Ad esempio, in vista della visita di papa Wojtyla a Livorno e Rosignano (nel marzo 1982): nell’équipe che si è occupata dell’arrivo di Giovanni Paolo II io ero responsabile dell’organizzazione e lui delle comunicazioni e dei rapporti con l’informazione.

È stato un incontro personale forte, l’abbiamo sperimentato di nuovo in occasione del Sinodo del 1984: ma, guardandolo con gli occhi di Savio, non dobbiamo vederla solo in quella fase livornese: ricordo che anche a Firenze è stato nella cabina di regia del Sinodo, poi seguirà da ausiliare il sinodo dei giovani a Livorno a metà anni ’90, infine l’ha guidato da vescovo a Belluno. Dovunque ha portato questo senso di sinodalità che si accompagnava a uno spirito aperto a tutto e a tutti. È stato un uomo di coraggio.

Quando è stato nominato parroco ai Salesiani, ha vissuto la realtà del quartiere e vi si è immerso fino in fondo, nel contatto con le persone. Come prevedono le regole salesiane, dopo un certo numero di anni ha lasciato la parrocchia ed è tornato poi da vescovo ausiliare. È capitato anche di scontrarsi ma facendo salvo il rapporto personale: mai che si sia fatto chiamare “monsignore” o “eccellenza”, per tutti noi livornesi di vecchia data era semplicemente “don Vincenzo” e ci rivolgevamo a lui dandogli del “tu”. Con  rispetto del ruolo ma semplicemente così.

Quante battaglie (anche difficili) abbiamo affrontato insieme negli anni in cui è stato al fianco del vescovo Ablondi. Peccato che Livorno non l’abbia saputo amare fino in fondo: Belluno l’ha fatto e lo ricorda ancora oggi. Da lassù oggi ci protegga.

D’altronde, non crediamo che anche un vescovo come Ablondi sia stato amato da tutti e sempre, idem per Savio. Con quel suo piglio bergamasco, lo sentii un giorno dire: “Io salgo sulla barca e punto al largo, chi vuol venire viene e chi no resta a terra”. Ricordo le tante scarpinate avanti e indietro nei corridoi del vescovado a parlare: l’ho visto anche con le lacrime agli occhi per la mancata riconoscenza che riceveva. Ma andava avanti.

Quando è stato il momento del saluto ad Ablondi, mi ha chiamato la sera prima della comunicazione del nuovo vescovo e mi ha detto: “Guarda, è una brava persona”. Mi aveva già avvertito un mese prima che lui non sarebbe rimasto. La congregazione l’avrebbe nominato ma lui non se la sentiva di rimanere qui “contro” qualcuno o con qualcuno “contro” qualcun altro: andò via. Ma il nostro rapporto è rimasto solido: anche attraverso don Biondi che ogni mese andava a Belluno. Sono andato anch’io a trovarlo tante volte: da solo, con monsignor Coletti, con monsignor Ablondi.

L’ultima volta, un mese prima che ci lasciasse. Era ormai sfinito, a letto: «Guarda in che condizioni sono», mi disse: «Però tu livornese sappi che io Livorno la amo». Volle morire guardando quel “Cristo sofferente” del Beato Angelico che lui aveva riscoperto a Livorno nei magazzini del Comune e aveva riportato alla luce: volle morire con quello davanti.

La sua sofferenza l’ha vissuta con forza, con coraggio, con serenità. Ricordo quando ha ricevuto l’unzione degli infermi, ricordo quando è andato a Lourdes in carrozzina i malati della sua diocesi, ricordo quando nell’ospedale di Belluno ha voluto salutare uno per uno gli ammalati. Questi sono i pastori di una Chiesa che vorremmo avere.

So che mi avrebbe voluto accanto a sé: l’aveva già deciso, è morto due mesi prima. Non mi interessa quel che avrebbe potuto essere la mia vita se lui avesse vissuto un po’ più a lungo: vuol dire che lo Spirito e la Chiesa hanno ritenuto di aver bisogno di me in altro modo. Ma per me don Vincenzo, il vescovo Vincenzo, è sempre nel cuore e nella memoria: nel primo anniversario della sua scomparsa andai a rappresentare la diocesi a Belluno. Alla tavola rotonda c’erano anche monsignor Andrich, il suo successore, e il vescovo Tonino Staglianò (ora alla Pontificia accademia di teologia), oltre a me. Come memoria di Livorno portai una rete: del resto, Vincenzo aveva gettato tante reti e preso tanti pesci: tanti da non poter esser trasportati sulla barca o a riva, come dicono i testi sacri. Vincenzo aveva trovato il suo carisma: riuscire a portare a terra la rete contando su un altro tipo di rete, il network di amicizie e collaborazioni con tante persone che sapeva coinvolgere.

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