Sassano: le cose che ho “respirato” stando al fianco di Vincenzo

Contrariamente a quanto si usa in questo blog, qui non sono io a scrivere: apro l’uscio della mia “casa di carta (virtuale)” alla testimonianza su don Vincenzo Savio da parte di alcuni fra quanti lo hanno conosciuto beneù

di Enrico Sassano

Mi è difficile parlare in memoria di Vincenzo Savio: molte volte ho rifiutato di farlo. L’unica volta che l’ho fatto veramente convinto è stato nell’omelia della S. Messa celebrata in parrocchia due giorni prima della sua morte. Spesso ho sentito solo il peso di dover dire delle cose che facevano parte della mia vita, che l’hanno indirizzata, che l’hanno fatta sbocciare, ma che rimanevano per me riservate, in un rapporto di amicizia e di fraternità unica.

IL CONCILIO. Faceva finta di tifare Atalanta, in realtà io voglio ricordare Vincenzo come “tifoso del Concilio”. Forse non è la parola giusta: lui era un amante del Concilio, un innamorato della Chiesa che i padri conciliari avevano intuito e proposto a tutta la comunità cristiana perché la realizzasse. E lui a questo ha lavorato, sempre.

La Chiesa Popolo di Dio è una bella espressione che tutti accettano oggi, a parole, senza rendersi conto di cosa significa in realtà. Lui lo aveva ben chiaro. I preti continuano a lavorare ad una Chiesa che presta servizi. Vengono a chiedere i sacramenti (battesimo, cresima, matrimonio) e giustamente questi servizi vengono offerti e offerti meglio che si può. Ma far crescere i laici in parrocchia richiede dialogo, continua messa in discussione, fatica nel capire e nel correggere, seminare sperando che la pianta cresca. È io non ho mai conosciuto una persona laica come Vincenzo.

IL LAICATO. I laici impegnati non sono come funghi che nascono senza radici. Certo è più facile parlare con persone che hanno bisogno di un servizio: quello chiedono e per quello sono disposti ad accettare tutto, tu glielo dai e ti senti gratificato. Ma ben altra cosa è la sofferenza che richiede la costruzione di una comunità. Gesù cosa ha fatto? Manco ha battezzato, non ha preparato al matrimonio: ha speso la sua vita ad insegnare ai discepoli l’amore per Dio e per gli uomini, fidandosi e affidandosi ad un gruppetto. Al popolo ha concesso i miracoli.

COSTRUIRE LA COMUNITÀ. Io riconosco in Vincenzo questo: ha adoperato tutta la sua vita a costruire la comunità cristiana e per questo ha subito la sofferenza della croce, che lo ha portato ad essere emarginato dalla sua comunità salesiana, da diversi della sua stessa comunità parrocchiale, da Livorno. Ma ha visto nascere lo splendore della esperienza di Belluno che il Signore, come in un lampo gli ha fatto balenare davanti per poi portarlo con sé.

I primi anni furono tutti dedicati alla partecipazione della gente al rito. Rimaneva la tendenza a vivere la celebrazione in maniera individuale: gli anziani continuavano a dire il canto durante la messa. E il canto? Nessuno cantava, il coro a sostegno dell’assemblea andava tra la gente.

LA LITURGIA. Bisogna aggiungere che Vincenzo dedicò tante energie, all’inizio del suo mandato a parroco a Livorno, alla valorizzazione della Settimana Santa: all’inizio la presenza era di solo una quarantina di persone, fino a riempire tutti i banchi della chiesa per la liturgia meno frequentata, quella del Venerdì Santo. Ricordo che volle sempre che si proclamassero tutte e sette le letture della veglia di Pasqua: diceva che la gente «ne aveva bisogno».  Per lui era importante che la liturgia terrena si esprimesse in maniera da avvicinarsi e avvicinare, per quanto possibile la liturgia celeste. Per questo curava con grande attenzione lo stile della sua celebrazione; la cura del rito, la passione e la competenza con cui coinvolgeva: i silenzi, le pause, l’intonazione, l’omelia ….

L’ALTARE IN AVANTI. Solo una sottolineatura riguardo alla partecipazione: quante discussioni, quanti tentativi, quante ipotesi relativamente allo spostamento dell’altare in avanti. Com’è ora, è centrale nel presbiterio ma ancora troppo lontano dalla gente. E rincarava: come pretendere una maggiore partecipazione con tutti e cinque i sensi se la gente resta lontana, staccata da quanto si celebra nel presbiterio.

A parte questo, vorrei focalizzare l’azione pastorale di Vincenzo Savio nel tradurre l’ondata rinnovatrice del Concilio a misura di parrocchia. Era arrivato nel bel mezzo di una fase bollente che aveva modificato anche l’identikit della chiesa: era stata rimossa la balaustra dell’altar maggiore e sui suoi resti poggiava ora la tavola dell’altare posta al centro del presbiterio e rivolta al popolo; il vecchio pulpito in legno (che della vecchia chiesa era visto come l’emblema) era stato rimosso nottetempo e dato al rogo (ma non furono mai individuati formalmente gli autori).

Non c’era solo questo: in parrocchia era balzato prepotentemente alla ribalta un gruppo giovanile di base. Era originato dall’oratorio; contestava la parrocchia perché troppo lenta nel recepire il Concilio nel campo della partecipazione, della liturgia, del modo di aiutare i poveri. C’era anche il consiglio pastorale parrocchiale: è lì che si dava battaglia.

Tutte queste turbolenze sono alle spalle. Mio fratello, viceparroco salesiano al Sacro Cuore, me lo fa conoscere appena arriva a Livorno e gli dice che posso dare una mano. Ma scopro anche quanto fosse intriso di inerzie pre-conciliari il mio modo d’essere cristiano: lo scoglio però non ero solo io quanto semmai la mentalità diffusa proprio in quanti si sforzavano di partecipare alla vita parrocchiale. Scogli superati mettendo in campo la sua intelligenza e la capacità di avere rapporti personali convincenti e coinvolgenti.

Giocò sul fatto di essere un parroco nuovo e alla prima esperienza, azzerò tutti gli organismi parrocchiali e si dette un anno di tempo per cercare di comprendere la realtà che lo circondava. Con un obiettivo: evitare di restringere la parrocchia a un club dei soliti noti di sempre. Ma come fare per non smontare il vecchio senza avere le energie per il nuovo? Puntò sulle famiglie, soprattutto una ventina di esse: in campo mariti, mogli e figli, riuscendo ad abbozzare così uno spirito di comunità.

LE TRE PAROLE. In effetti, tre erano le parole chiave di allora: comunità, comunione, comunicazione. C’è una frase che rimbalzava a quel tempo e bene spiega la “bussola” che si era data una assemblea parrocchiale aperta a tutti: «Siamo Comunione in Cristo, per divenire Comunità abbiamo bisogno della Comunicazione».

Su questa base sono nati il consiglio pastorale, le commissioni del consiglio e l’assemblea della comunità. I laici avevano dunque i loro organismi di partecipazione volontaria: niente cooptazioni né voto per gruppi di rappresentanza, solo l’elezione a voto segreto durante l’assemblea liturgica festiva. Vincenzo difese sempre: 1) l’impostazione laicale del Consiglio, in contrasto talvolta con l’unico rappresentante esterno non eletto (oltre lui), cioè il direttore dell’Opera salesiana di Livorno; 2) il fatto che l’organismo, in linea con le indicazioni del Sinodo, fosse guidato da un laico; 3) l’autonomia del percorso del consiglio rispetto alla decisione che lui poi si riservava di assumere. 

LA CHIESA DEL CONCILIO.Il primo consiglio pastorale si occupò di diffondere la conoscenza dei documenti conciliari, in particolare delle quattro Costituzioni: si voleva far rivivere le intuizioni conciliari, lui in quegli anni era studente di teologia a Roma e ci raccontava che insieme ai suoi compagni si viveva l’alternarsi fra speranze e delusioni con un tifo da stadio.

L’idea base era quella di una Chiesa aperta: la parrocchia come “comunione di comunità” e al centro il nucleo del livello familiare come luogo di trasmissione dell’esperienza di fede. Nacquero così tante esperienze di condivisione come l’inizio della festa settimanale insieme: i sabato sera insieme con le famiglie che si incontravano, pregavano, condividevano la cena e poi facevano festa. Magari alla colonia salesiana del Calambrone.

Quell’idea di una Chiesa comunitaria e aperta lo spinse, e spinse noi che l’abbiamo condivisa con lui, ad incontrare altre esperienze ecclesiali che presentò come veri e propri pellegrinaggi alle chiese viventi sorelle: le visite a Suzzara e a Bergamo per conoscere le “comunità di caseggiato”, l’incontro con la comunità di don Fallico per le comunità ecclesiali di base, l’esperienza iniziale della comunità di Sant’Egidio a Roma, le Comunità di base dell’America latina.

LA PAROLA DI DIO. Non era però un comunitarismo sociologico, uno scaldarsi a vicenda: la comunità metteva al centro la grandezza e la bellezza della Parola di Dio. Ricordo il periodo in cui appoggiammo le nostre riflessioni su un libro di Carlo Mesters, un cantore delle comunità ecclesiali di base dell’America latina. Ricordo la parabola della porta: dà l’accesso a una chiesa, ma è nascosta da anni da una vegetazione incolta. Solo riscoprendo la porta e riaprendola tutto il popolo può entrare e farla rivivere.

Con grande forza richiamò tutti i parrocchiani perché mettessero Cristo al centro della loro vita e al centro della comunità. Venivamo da una Chiesa dove la devozione si era troppo spesso trasformata in devozionismo e, pur con tutte le attenzioni e il rispetto delle persone, reimpostò la pastorale in questo senso: comprendere ed amare Gesù, la sua croce e la sua risurrezione a partire proprio dalla Settimana Santa.

Volle che le nostre riunioni, discussioni, idee avessero come giudice Gesù e i suoi insegnamenti: se nascevano discordie, era nella Bibbia che dovevamo cercare il riferimento per giungere all’unità. Nacque la proposta di imparare a conoscere la Bibbia nei tempi forti dell’anno liturgico, con due incontri settimanali. Affidò l’introduzione alla Sacra Scrittura a un biblista salesiano di grande carisma e di una intelligenza furba, don Giovanni Rizzato che riuscì a farci superare il primo problema che nasceva e cioè la lettura letterale.

LA CATECHESI. Anche nella catechesi inizio un profondo rinnovamento al fine di adeguarla ai tempi nuovi. Senza rinnegare niente, e nel rispetto della cultura passata, volle che il catechismo passasse dalla forma scolastica a quella di gruppo. Ne prese la diretta responsabilità e chiamò coppie di genitori, affiancati a ragazzi più giovani, per svolgere questo servizio: organizzò corsi di formazione per loro, durante l’estate, e li inserì come catechisti chiedendo a suore e sacerdoti, che avevano svolto questo compito sino ad allora, di lasciare loro lo spazio. Credeva fortemente che la catechesi fosse un compito dei laici, cosa allora non affermata come adesso, e li spinse ad assumersi questa responsabilità.

Vincenzo aveva sicuramente un dialogo forte e personale con quel Dio che tanto amava. La sua fama di grande organizzatore, di uomo d’azione, era sicuramente giusta ma lui è stato uomo di contemplazione anche se forse non molti lo hanno conosciuto sotto questo aspetto. Ricordo in particolare come nei primi tempi del suo arrivo a Livorno, quando evidentemente le difficoltà erano tante, trascorresse diverse notti in preghiera, in chiesa o nella cripta e ricordo come il Dio della Provvidenza lo ascoltasse e lo aiutasse nei modi diversi, a seconda dei bisogni che affidava al Signore.

LE FAMIGLIE. Ha lavorato con grande impegno con le famiglie che riteneva davvero piccole chiese. Nei primi due anni della sua presenza in parrocchia nacquero tre gruppi familiari di cui uno seguito direttamente da lui che raggiunse un alto livello di condivisione. Per lui le famiglie della parrocchia erano davvero le sue famiglie; i nostri figli erano anche suoi e in loro realizzava la sua paternità che sentiva molto forte. Per alcuni, in certi momenti, fu un vero padre integrando nostre carenze di genitori nei confronti dei figli, specialmente nelle età più difficili.

La passione per i ragazzi, tipica del salesiano, era veramente forte; sembrava averne proprio un bisogno fisico, li strapazzava, li coccolava, li faceva sognare. La sua passione per la montagna e le sue esperienze da chierico, fecero da molla per la ricerca di una casa dove i gruppi dei ragazzi e dei giovani potessero trascorre le vacanze nel divertimento sempre coniugato con l’educazione personale alla fede. La casa fu trovata sull’Appennino tosco-emiliano e divenne la sede dove i ragazzi vivevano esperienze indimenticabili: dall’insegnargli a contemplare le stelle ad architettare scherzi indicibili di cui era autore e attore. Sentiva forte anche il problema del tempo di vacanza dalla scuola, in cui i ragazzi, già allora, veniva lasciati in balìa di se stessi. Per questo inventò anche un oratorio estivo che chiamò, per l’appunto “Un filo per non perderti”. Quello che oggi è stato tradotto in Estate ragazzi.

Ma con i giovani era anche esigente, specialmente con coloro che avevano capacità particolari (perché le mettessero a disposizione di tutti).

I PROBLEMI SOCIALI. Quanto al suo rapporto con i poveri e le problematiche sociali, va detto che nacque a Livorno già prima che fosse ordinato sacerdote. Con alcuni amici venne a trascorrere le sue vacanze estive tra i baraccati di Coteto: si fece avvocato dei poveri, occupò una baracca liberatasi, stette con loro tutti i giorni dell’estate, dalla mattina alla sera, condividendo la loro vita; organizzo scuole serali per adulti, doposcuola per ragazzi, riunioni, assemblee. Accompagnò una loro delegazione in Comune perché fossero risolti i problemi più urgenti, primo fra tutti dare a ciascuna famiglia una casa e demolire immediatamente una baracca.

La Caritas la volle in parrocchia con queste condizioni: chi vi lavorava doveva radicare nel Vangelo il suo impegno e doveva conoscere il mondo in cui entrava. Gli operatori entravano così in rapporto con il territorio; con le Istituzioni e la circoscrizione in particolare, dove volle che si inserissero rappresentanti della parrocchia per essere portatori delle istanze parrocchiali e per ricevere quelle delle Istituzioni.

Con le assistenti sociali iniziò quel lavoro di rete di cui anche oggi si parla ed è di quel tempo l’inizio del dopo scuola all’oratorio per i più disagiati e l’affido di bambini e ragazzi a diverse famiglie della parrocchia. Lui stesso seguì alcuni casi, specialmente di ragazzi in situazioni difficilissime, ed ottenne in un caso molto grave l’affido personale.

LA GITA A ROMA. La sua attenzione ai più poveri può essere testimoniata da un episodio di quegli anni. Frequentavano la parrocchia alcuni ragazzi problematici; due, in particolare, gli stavano sempre vicino: uno, più tranquillo ma molto insistente nelle sue richieste e l’altro più “esuberante” che però lui riusciva a contenere tanto che quando era più piccolo gli aveva fatto da chierichetto, poi, più grande, avendo buone capacità di imitazione, andava per autobus a ripetere gesti e parole della messa. Un giorno Vincenzo raccontò loro, con grande uso di fantasia e di iperboli, delle meraviglie che aveva visto durante una gita a Roma e promise loro che ce li avrebbe portati. Da quel momento specialmente il primo, il più petulante, non passava giorno che glielo ricordasse. Così un giorno infrasettimanale, alle quattro del mattino partì con loro per Roma e ritornò alle 22,30. Ecco cosa vuol dire condividere con i poveri.

LA SOLIDARIETÀ. La sua sensibilità e capacità organizzativa si coniugarono perfettamente nel caso del terremoto in Irpinia. Aprì la cripta per la raccolta di aiuti, coinvolse tutta la comunità e fece divenire la parrocchia centrale operativa diocesana. Da lì partirono i primi camion di aiuti, guidati da don Gino Franchi.

L’attenzione ai paesi poveri del mondo è testimoniata dal suo impegno, in ciò delegato dalla Ispettoria salesiana, a iniziare una missione in Camerun. Fu inviato per rendersi conto di quella realtà, prendere contatti con la chiesa locale e con il governo ed avviare i primi passi (siamo nel 1981) di una missione che oggi è diventata una importante opera ramificata in più zone a servizio dei ragazzi e dei giovani Camerunesi.

 LA CULTURA. Se riteneva un avvenimento degno di interesse lo portava alla ribalta di tutta la comunità. Una commissione del consiglio pastorale venne chiamata “Riflessione e Confronto” e con la sua spinta si dotò e rinvigorì strumenti di comunicazione culturale. Il cinema che in quegli anni propose i primi cineforum; le pubblicazioni di cui ho già parlato; la biblioteca specializzata (costruita attorno ai suoi libri che poi lascio alla parrocchia); la organizzazione di incontri con personalità di rilievo. Su tutti ricordo l’incontro con mons. Bettazzi che presentò il suo libro “Ateo a 18 anni” e l’incontro con mons. Cappucci, allora vescovo palestinese di Gerusalemme, e sospettato collaboratore dei terroristi palestinesi, con una turbolenta presenza all’incontro di personalità ebraiche. Ma anche giornalisti di grande livello come Luigi Accattoli. O, tra i tanti convegni, quello su un argomento scomodo come la morte con un bell’intervento di don Ordesio Bellini.

L’ECUMENISMO. La memoria va alle prime settimane di preghiera per l’unità dei cristiani vissute in parrocchia con una particolare tensione fatta di preoccupazione per la novità e di attenzione consapevole che i nostri ospiti vivevano questi momenti con grande preoccupazione di salvaguardare la loro identità in un ambiente che li sovrastava.

Ma il ricordo più bello fu la partecipazione ad una settimana del SaeE al passo Mendola con tre famiglie della Parrocchia. Li cominciammo a imparare nomi come Maria Vingiani, Max Turian, Bertalot, Enzo Bianchi. E lì organizzò una, credo unica, tavola rotonda per ragazzi, coinvolgendo i nostri figli e quelli di alcuni pastori protestanti; se non sbaglio il moderatore fu il pastore Bertalot. La sua passione per l’unità dei cristiani fu per noi evidente, più di qualsiasi teoria in merito.

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