La strage del Moby: cosa c’è dietro la perizia con cui si è “smacchiata” ogni colpa

Il teorema della “palla di fuoco” indispensabile per azzerare ogni responsabilità in nome del fato: come se invece di assomigliare a uno dei tanti misteri della Repubblica, l’apocalisse del traghetto (con 140 morti a un palmo dal porto di Livorno) fosse una catastrofe naturale: come un terremoto

In occasione del 33° anniversario di quella notte in cui ho seguito in redazione l’emergere di cosa stava accadendo a pochissime miglia dal lungomare di Antignano, ripesco una delle dieci puntate pubblicate nel 2021 sul “Tirreno” con una doppia pagina per ciascuno dei primi dieci giorni di aprile. Nel trentesimo della tragedia ho cercato di riportare una qualche luce su quella storia senza pace. E’ stata la più enorme strage dal dopoguerra in poi qui da noi sulle coste toscane, è stata la più complessa inchiesta che ho messo nero su bianco nei miei quarant’anni di cronista di provincia, di raccontatore di storie fuori dai riflettori del centro.

Prima di iniziare, ricordo con estrema nitidezza un passaggio di quella sera: all’inizio tutto si concentra sulla petroliera in fiamme (ed è ovvio). Ma gli scontri si fanno in due con qualcuno che va a sbattere contro qualcun altro: invece questa seconda “entità” restava fuori dai radar dell’attenzione di tutti. Il cambio di registro è quando Livio Liuzzi, grande capo in tandem con Luigi Bianchi e uomo di macchina, dalle scrivanie dell’ufficio centrale urla qualcosa che gli deve aver detto qualcuno per telefono in quel momento. Lo urla a me in cronaca che faccio il giro di notte e in mezzo al quel caos sto tenendo i contatti con tutto quel che ci può dire qualcosa, fossero la Capitaneria, i carabinieri, i vigili del fuoco o chissà chi. Livio urla: “Fatti dire cosa è qualcosa che si chiama Moby”. Sbianco: “Ma Livio, Moby è un traghetto: sono persone”. (m.z.)

di Mauro Zucchelli

Avesse ancora da scriverla la Divina Commedia, forse Dante Alighieri potrebbe inventarsi il decimo cerchio dell’Inferno e infilarci il Moby Prince. Inutile girarci intorno, ce lo immaginiamo così: come se il traghetto Navarma invece di uscire dal porto di Livorno per far rotta su Olbia si fosse tuffato in un vulcano.

Invece no, è una fandonia. E la prima cosa che finisce nel mirino non può che essere la consulenza del pool guidato dal professor Marino Bargagna, un medico legale considerato anche dalle controparti una istituzione nel suo campo: nell’immediatezza dei fatti, indica agli inquirenti che la sopravvivenza a bordo non è andata oltre i 30 minuti.

L’aveva detto fin da subito il ministro Carlo Vizzini. Lo ripeterà alla commissione parlamentare pure Sergio Albanese, all’epoca comandante della Capitaneria, che la sera della sciagura era alla Spezia: «Quelle 140 persone erano morte dopo mezz’ora. Se ce l’avete con me, quando io sono arrivato quelle persone erano morte già da dieci minuti. Quindi, è inutile insistere sulla questione dei soccorsi, sotto la quale si vuole ipocritamente mascherare il mio nome». Difende l’idea di concentrarsi sulla petroliera: «Sono di Bari dove, durante la guerra, è scoppiata una petroliera, facendo agli uomini e ai palazzi più danni di quelli causati da tutti i bombardamenti messi insieme: se scoppia una petroliera è la fine del mondo».

LA PERIZIA “A OCCHIO”

Però c’è un “però”, anzi una grandinata di “però”: arrivano dalla contro-perizia che un quarto di secolo più tardi l’inchiesta di Palazzo Madama ha affidato a Gian Aristide Norelli e Elena Mazzeo, accademici l’uno dell’ateneo fiorentino e l’altra di quello sassarese. Riguardo alla perizia del ’91, «sotto il profilo metodologico medico legale non può che rilevarsi una gravissima inadempienza». Colpa del fatto (umanamente comprensibile) che, «per la pressione mediatica e dei familiari che reclamavano il diritto a riavere per l’ultimo saluto il corpo dei propri cari», quell’équipe si è spesso limitata a dare un nome ai resti senza «alcun accertamento né autoptico né tossicologico», riuscire cioè a dare un’identità senza badare a «delineare le cause, i mezzi e i tempi di morte».

Ecco un tris di sottolineature: 1) «nessun accertamento è stato eseguito sulle vie respiratorie anche di soggetti relativamente integri», tranne che sul cadavere 70; 2) «nessun accertamento» per capire se eventuali lesioni sono state prima o dopo il decesso; 3) si è trascurata l’importanza dell’«ubicazione dei corpi all’intero dei locali della nave», supponendo implicitamente che ovunque la morte fosse arrivata nello stesso momento o quasi. Insomma, nella fretta hanno dato per scontata l’idea di Moby ridotto tutto a gigantesco falò che arrivava dall’enormità della tragedia ma spesso proprio da quei soggetti che avrebbero potuto rischiare di finire nei guai se si fosse dimostrato che i soccorsi erano stati maldestri o assenti.

L’ ALIBI PERFETTO

La nebbia e il traghetto-falò sono il miglior alibi per tutti: il fato, la disgrazia improvvisa. Nessun colpevole, appunto: tutti morti (i morti), tutti innocenti (i vivi). Mazzeo e Norelli invitano a tirar fuori dall’album degli amarcord la doppia immagine straziante di Antonio Rodi, 41 anni, cameriere. Alle 7 del mattino è un cadavere pressoché integro, se ne vede la maglietta rossa quando un elicottero dell’Esercito con un cameraman Rai sorvola la carcassa fumante del traghetto.

Quel corpo – lo sostiene Gabriele Bardazza, perito di parte per conto di un gruppo di familiari – non poteva essere lì quando sono passate le fiamme che «hanno consumato la vernice sul ponte della nave». Più tardi i primi vigili del fuoco che salgono a bordo lo trovano carbonizzato: è stato il surriscaldamento delle lamiere. Per i familiari delle vittime è soprattutto l’indizio che era «vivo sicuramente fino alle 7,30 del mattino»: quasi nove ore dopo il rogo.

Sul traghetto è stato trovato un filmato girato sul Moby. Appartiene alla famiglia Canu: lui, 28 anni, agente penitenziario, abita con la famiglia a Pisa, la loro è una rimpatriata a Burgos. Un tuffo al cuore vedere la piccola Sara che è un batuffolo di gioia e spensieratezza: ma quei 4 minuti e 31 secondi di ordinaria quotidianità vacanziera sono la prova provata che la pellicola è rimasta indenne, e stiamo parlando di materiali pure così sensibili al fuoco o anche solo a alterazioni di calore. La trovano «all’interno della videocamera inserita nella borsa di Giglio Annamaria, moglie di Canu Angelo». Né borsa né videocamera né videocassetta sono state attaccate dal fuoco. E siamo negli istanti appena prima della tragedia: lo attesta il botto con cui le riprese si interrompono.

Collisione? Difficile: «I passeggeri che erano all’interno della cabina sarebbero caduti e stati spostati in avanti», dice l’avvocato Paolo Bassano, legale di parte civile. Come che sia, i coniugi Canu più le loro bambine (di uno e cinque anni) hanno il tempo di mettere a posto la videocamera, lasciare la cabina, andare chissà dove e poi radunarsi con gli altri nel salone e li trovare la morte. A dire il vero, la perizia dei Ris dell’Arma agli ordini del generale Luigi Ripani imputa a un inciampo del nastro quei sei secondi di uno strano rumore sordo.

NEL SALONE DELUXE CON LA VALIGIA

Il mistero resta: la gran parte dei passeggeri viene trovata accalcata nel salone deluxe: perché? Cosa ci fanno lì, nel “cuore” blindato del traghetto protetto dalle porte tagliafuoco? Come mai, lo ricorda l’allora responsabile della polizia scientifica livornese Giampietro Grosselle, «molte persone, quasi tutte, avevano con sé le borse e le valigie»? Anzi, avevano già il giubbotto salvagente. Non c’è altra ipotesi sensata se non che siano stati radunati dal personale di bordo: si ammassano i turisti là dove la nave offre protezione dall’incendio.

Li ammazzeranno i fumi arrivati dall’impianto di condizionamento? No, non quadra per Florio Pacini, elbano, ex dirigente Navarma: le bocchette di aerazione funzionavano bene, le hanno smontate una per una. «Quando affermano che il fumo è stato trasportato dall’aria condizionata dicono un errore: non può essere possibile perché era chiuso». Un rogo talmente tremendo da lasciare solo un sopravvissuto: il mozzo Alessio Bertrand.

Forse divorato dagli incubi di quella notte (ne parla in tv nella trasmissione di Andrea Purgatori su La7), di fronte alla commissione d’inchiesta del Senato proprio le parole del mozzo dànno il destro alla relazione finale di fare a pezzi l’idea ancora diffusa per cui «da molti l’incendio sul Moby Prince è descritto come una palla di fuoco che avvolge l’intero traghetto», il sopravvissuto afferma che «a poppa del Moby il fuoco era localizzato solo sul ponte superiore, ma non rendeva impossibile la permanenza nella zona dove si era rifugiato: è una tesi che coincide con gli approfondimenti della commissione».

IL FALSO TEOREMA DELLA “PALLA DI FUOCO”

Nell’immaginario collettivo c’è l’idea del traghetto che s’infila nella “pancia” della petroliera e dunque viene invaso dal petrolio. Però la parte prodiera del ponte di coperta era alta «7,8 metri sulla superficie del mare» mentre il livello del carico di petrolio all’interno della cisterna numero 7 nella quale si infila per 14 metri il Moby era «5,71 metri sul livello del mare», come riporta la relazione dell’ingegner Gennaro: lo nota la richiesta di archiviazione dell’inchiesta bis del pm Antonio Giaconi, ma su questo insistono anche i parlamentari che chiedono la commissione d’inchiesta (primi firmatari a Montecitorio nel 2014 i deputati vendoliani Michele Piras e Marisa Nicchi) così come i familiari delle vittime.

Per il lavoro dei periti su cui si appoggia la sentenza di primo grado il traghetto ha agito come un pistone e ha imbarcato un po’ di petrolio e un po’ di gas che si sono generati. Ma chi piange un figlio o un padre ribatte: 1) i dati sulla quantità e sulla qualità di quel che c’era nelle cisterne non l’ha potuto accertare nessuno, ci si basa solo su dichiarazioni di Agip; 2) sono emersi dubbi sulla plausibilità di quanto dichiarato dall’armatore della petroliera in merito alla provenienza del carico; 3) i vertici della Capitaneria hanno sbarrato l’accesso ai tecnici del pm dicendo che non c’erano condizioni di sicurezza. E comunque il ponte del traghetto era pur sempre due metri più in alto.

È il perito Bardazza, dopo aver ribadito che «non esiste una relazione tecnica sulle modalità di propagazione dell’incendio a bordo del traghetto», a sottolineare che è una balla il teorema della “palla di fuoco”: lui mostra foto di zone del Moby in cui sono rimasti indenni perfino i tovaglioli di carta. Anche «la sala macchine è integra: vi sono stati ritrovati i corpi di Gerhard Baldauf e Giovanni Abbattista, lì non sono arrivati neanche i fumi dell’incendio».

IL VIDEO CHE SMENTISCE

Entriamo nel garage del Moby proprio insieme a chi ha perso un fratello, un’amica, un marito. Ascoltiamoli mettere l’accento su un altro video, l’hanno girato dai vigili del fuoco che per primi hanno messo piede a bordo: si vedono «impronte di mani lasciate sulla fuliggine» che copre le auto. Per loro le ha lasciate «chi, dopo l’incendio, vagò nei garage in cerca di salvezza».

Se ne parlò anche al processo ma solo per togliersela dai piedi attribuendo le manate al caos delle ispezioni nei mesi successivi alla sciagura. Peccato che non fosse ancora spuntato fuori questo video che, secondo la controperizia, mostrando il primissimo accesso a bordo sgombra il campo dall’ipotesi di contaminazioni. Eppure nelle ricostruzioni ufficiali questa è una delle zone attaccate dalle fiamme fin dall’inizio, poi è stato necessario che il fuoco si spegnesse e lasciasse campo al fumo poi depositato sulle carrozzerie.

Successivamente in condizioni meno infernali è entrato qualcuno in cerca di una via di fuga o di un angolino in cui rifugiarsi. E nemmeno si è fermato lì: non risulta siano stati trovati in questa zona corpi senza vita. Davvero tutto in mezz’ora?

NÉ TUTTI SUBITO NÉ TUTTI ALLO STESSO MODO

La teoria delle morti-fotocopia non sta in piedi: non è vero che a bordo del Moby tutti sono morti nello stesso momento, non è vero che sono morti allo stesso modo e per lo stesso motivo. A fare a pezzi quest’idea è il professor Marcello Chiarotti, tossicologo forense dell’Università Cattolica: quante differenze fra un cadavere e l’altro riguardo alla saturazione dell’emoglobina. Segno che «molto probabilmente le vittime all’interno del traghetto in qualche modo hanno potuto circolare e hanno vagato cercando di mettersi in salvo, andando da una zona all’altra della nave». Poi: non è plausibile che si arrivi «al 90% di saturazione di ossido di carbonio in un soggetto sopravvissuto all’incendio per pochi minuti, anche per trenta».

Può aiutarci il libro-denuncia di Francesco Sanna e Gabriele Bardazza dal titolo “La strage impunita” (lo trovate in libreria, anche quelle online (e nelle biblioteche di Villa Fabbricotti a Livorno, Levi a Cecina e Falesiana a Piombino): dunque, la perizia dello staff del medico legale (tutti morti in mezz’ora) non nasceva da accertamenti medico-legale o tossicologici: di fatto si limitava a prendere per buona la ricostruzione fatta ad altri livelli tecnici. È proprio quella sopravvivenza limitata a mezz’ora a spalancare la porta dell’assoluzione sul fronte dei soccorsi. Beninteso, anche lo studio di Mazzeo e Norelli distingue: un conto è quanto sono rimasti in vita a bordo, altra cosa è se «i soccorsi stessi potessero agire stanti le condizioni di inaccessibilità della nave ed i passeggeri non potessero tuffarsi in acqua».

Ecco che il pool di periti internazionali del tribunale giura che non fosse possibile salire a bordo da parte dei soccorritori: la temperatura era dentro e fuori dal traghetto Livorno-Olbia talmente elevata che «l’eventuale trasbordo del personale di soccorso dall’elicottero sul traghetto in fiamme (ne) avrebbe causato il decesso quasi immediato». E se invece di un elicottero, ci si fosse provato via mare? Figuriamoci: «Anche riuscendo a salire a bordo dalla parte poppiera destra, i soccorritori non avrebbero potuto procedere all’interno del traghetto».

MA C’È UNA ECCEZIONE, ANZI DUE O FORSE PIÙ

Il dubbio però viene ascoltando il racconto di Florio Pacini, un passato da dirigente Navarma. Ad esempio, nell’apparato antincendio di bordo, c’è una fiala che scoppia a 72 gradi e ve ne sono alcune intatte: segno che «lì non c’erano i fumi a 270 gradi che avrebbero dovuto fulminare le persone». Nel garage c’è un camion «la cui targa si legge tranquillamente perché non è neanche bruciacchiata», idem per furgoni «a 40 metri dalla prua» affumicati sì ma senza “frecce” e gomme bruciati. Ma soprattutto poco dopo le tre di quella notte c’è un marinaio del rimorchiatore Neri che va a bordo: ha solo una tuta anti-pioggia.

Non dimentichiamoci il mozzo sopravvissuto Alessio Bertrand. Risposta della perizia ufficiale: vabbé, «con eccezione del punto ove è stato ritrovato l’unico sopravvissuto». Ma è rimasto sempre fermo lì? Bertrand ha ripetuto mille volte che nel traghetto in fiamme si è mosso «oltre un’ora e mezza dopo il mayday» (e nella sua testimonianza segnala che il marinaio Giovanni D’Antonio è rimasto «in vita per molto tempo» e «lo ha accompagnato nella sua fuga all’interno della nave»).

Ancora un enigma irrisolto: la tragica fine di Francesco Esposito, classe 1947, marittimo. Lui, il fuoco non l’ha neanche sfiorato, è morto dopo per annegamento, lo ritrova la motovedetta della Finanza la mattina dopo alle 9, 25. Annegato nel combustibile: però – dice un’inchiesta di “Famiglia Cristiana” del 2013 – non nel petrolio Iranian light della petroliera bensì della nafta. Già, ma cosa ci faceva la nafta?

Nelle foto, dall’alto: il relitto del traghetto Moby Prince ancora fumante all’alba nella rada del porto di Livorno; il capannone con le salme fino a quel momento recuperate (questa e la successiva sono di Massimo Sestini, grande fotoreporter con cui mi onoro di aver lavorato); l’interno del traghetto devastato dal rogo; una tavola del fumetto che l’editore Becco Giallo ha dedicato alla strage; la lapide con i nomi delle vittime nel Porto Mediceo; il traghetto dopo la collisione soccorso da un rimorchiatore (eccezion fatta per la graphic novel e gli scatti di Sestini, le immagini sono state reperite in rete e ritenute di libero uso: qualora così non fosse, vi preghiamo di segnalarlo nei commenti così che provvederemo a rimuoverle immediatamente)

Una replica a “La strage del Moby: cosa c’è dietro la perizia con cui si è “smacchiata” ogni colpa”

  1. Avatar angeloromace0805db52
    angeloromace0805db52

    Giornate veramente tragiche e pesanti: dopo alcuni giorni dall’evento, la Prefettura mi chiese alcuni contenitori REEFER della ZIM per il posizionamento delle salme … mi vengono ancora i brividi,

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