Lo scienziato livornese premiato con l’Oscar (mondiale) dei super-ingegneri high tech

La premiazione a Boston per il settore dell’automazione ultra-avanzata. Sorpresa: l’ex città industriale senza (quasi) più industrie è già ora una “fabbrica della ricerca” con figure sociali nuove. Ma non ce ne siamo ancora davvero accorti

di Mauro Zucchelli

Lasciamo stare se stavolta la “notte degli Oscar” non ha premiato il cinema made in Italy rappresentato dal magnifico “Io capitano” di Matteo Garrone. In realtà, un Oscar ce lo siamo portato a casa noi livornesi, e non è la prima volta. Non c’entrano né Paolo Virzì né Francesco Bruni e nemmeno Paolino Ruffini e stavolta il riconoscimento superstar non va a una delle figure tecniche in cui i talenti livornesi spiccano nel mondo (con la costumista Gabriella Pescucci, i truccatori/acconciatori Dalia Colli, Paola e Massimo Gattabrusi hanno già vinto in passato quel che c’era da vincere).

Siamo negli Stati Uniti sì, stiamo parlando di biorobotica, e alla cerimonia agli inizi di maggio – in agenda non nella California tutta show & chip bensì nella Boston sulla West Coast fra il Mit e Harvard –  il premio Oscar (o una sorta di Nobel di categoria) lo consegneranno a Paolo Dario, una straordinaria figura di “ingegnere rinascimentale” legato ad un nuovo umanesimo fatto di scienza anziché di chiacchiere e distintivo. E, guarda un po’ le coincidenze, talmente appassionato di cinema da farne un occhio per leggere la realtà e l’esistenza…

Il premio internazionale gliel’ha assegnato l’IEEE: è la sigla della più grande organizzazione internazionale che raggruppa ai quattro angoli del mappamondo un esercito di 460mila scienziati – soprattutto ingegneri ma anche biologi, matematici e fisici – che, con una costellazione di una quarantina di associazioni consorelle, si occupano di far camminare in 190 Paesi l’innovazione tecnologica e trasferirla nelle nostre esistenze per migliorarle.

A Paolo Dario è stato assegnato l’ “IEEE Robotics and Automation Award”: questo premio consacra il riconoscimento dello scienziato livornese come padre della robotica bio-ispirata, cioè da quell’ingegneria avanzata che prende esempio dalla biologia (e, complessivamente, dalla natura) per mettere a punto progetti di ricerca che nel mondo hanno fatto crescere l’interrelazione fra robotica e medicina. Un Antoni Gaudì dell’automazione, verrebbe da dire ricordando il genio dell’architetto catalano che ha sfidato le regole consolidate “inventando” quella meraviglia che è la “Sagrada Familia” a Barcellona.

Già nel 2017, ne avevo dato notizia sul “Tirreno”, un riconoscimento internazionale da parte dell’IEEE era stato assegnato a Dario, sempre sul fronte della robotica soft: era l’ “IEEE Ras George Saridis Leadership Award in Robotics and Automation” e la motivazione riguardava il fatto di aver consolidato la robotica come tecnologia pervasiva.

Dal quartier generale dell’istituto universitario d’eccellenza toscano, si tiene a ribadire che a Pisa Paolo Dario si è laureato in ingegneria meccanica e a Pisa è stato direttore dell’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna per il periodo che va dal 2011 al 2017. Non è una sottolineatura a caso: è lo stesso scienziato livornese che, al di là del grande talento di una intelligenza del tutto fuori dal comune, mette l’accento sul fatto che il premio lo ritiene indirizzato «soprattutto al sistema». Da tradurre così: «le scuole che ho frequentato e gli appassionati insegnanti che mi hanno educato e ispirato, la mia famiglia, l’Università di Pisa e la Scuola Superiore Sant’Anna nelle quali mi sono formato e ho operato, le straordinarie relazioni con tanti colleghi, studenti e allievi: il mio Paese in generale».

È stato tutto questo, dice Paolo Dario, che «mi ha messo nelle condizioni di svolgere il lavoro che la comunità internazionale della robotica ha ritenuto di voler premiare». Lo ripete al netto ovviamente del legittimo orgoglio e, al tempo stesso, confessando «un po’ di imbarazzo» in nome di una certa qual ritrosia: in realtà, l’acutezza intellettuale è indiscutibile. Così come la disponibilità a far crescere intorno a sé i “cento fiori” delle nuove generazioni di scienziati, visto che poco prima del Natale 2015 due ingegnere della nuova leva cresciuta nel team di biorobotica sono state indicate nel gruppo delle 25 studiose più influenti al mondo in questo campo. L’ha fatto “Robohub”, qualcosa di simile a una “bibbia” del settore.

L’ingegner Dario, che “firma” una cinquantina di brevetti internazionali, ha aperto la strada a una nuova generazione di robot: al contrario dell’identikit che ne fa l’emblema della disumanizzazione, ecco nelle sue intenzioni un approccio “morbido” e “amichevole” nella relazione con gli esseri umani. L’ho già detto che si tratta di una automazione che prende ispirazione dal “linguaggio” della natura e dalle “architetture” biologiche che la fanno funzionare: in particolare, si tratta di robotica per chirurgia, per microendoscopia e per riabilitazione. «Su questi temi – dicono dalla Scuola superiore Sant’Anna – ha pubblicato oltre 180 articoli su riviste internazionali (Isi), e oltre 300 fra capitoli di libri internazionali e articoli in atti di congressi internazionali, ricevendo premi scientifici per alcuni di essi».

La platea dell’ingegnere livornese è il mondo, e questo premio lo attesta una volta di più. Al tempo stesso, Dario ha sempre rivendicato l’idea di rimanere attaccato alle radici. In Italia: paese periferico nella geografia mondiale dell’hi-tech. Più precisamente, in Toscana: una realtà che talvolta pensa di campare semplicemente mettendosi in naftalina per contare su musei e Rinascimento. In particolare, sulla Costa Ovest, fra Livorno e Pisa: è targato Piombino il certificato di nascita; è stata a Livorno la sua casa per larga parte della sua vita; a Pisa ha studiato e lavorato; a Pontedera è andato a dirigere il laboratorio di biorobotica che ha fatto scuola; sul lungomare di Livorno è tornato per aprire un polo che si occupasse in particolare dell’ipermotricità del polpo; sulle colline pisane alle spalle di Rosignano è andato a vivere da qualche tempo. In pratica, la quintessenza dell’area vasta (e di quel che potrebbero essere Livorno e Pisa se, al di là degli sfottò da derby di calcio, smettessero di guardarsi in cagnesco e si alleassero davvero).

Ma torniamo a quella scelta di rimanere impiantato in Italia benché il ruolo fosse anche quello di “contagiare” su scala planetaria questa robotica di ultima generazione: di averlo fatto testardamente a dispetto dei tanti colleghi che gli dicevano che era impossibile che «l’Italia potesse essere anche un luogo dove concepire, progettare, realizzare ricerche di valore internazionale capaci di produrre risultati scientifici e tecnologici utili e di elevato impatto sociale, attraendo, formando, ispirando, valorizzando e facendo rimanere nel nostro Paese tantissimi giovani di talento e appassionati». Ecco, è per questo che Dario vuol andare al di là della soddisfazione personale: è un messaggio ai tanti giovani talenti perché non si raggomitolino nell’alibi facile di non poter ambire a grandi traguardi perché non si abita a Londra, New York o Singapore. Proprio il fatto che lui ce l’abbia fatta vale come una molla in più: se ci è riuscito lui, posso farcela anch’io…

Come mi disse una volta in una delle nostre chiacchierate, bisogna smetterla con l’aut aut del celebre detto: “meglio disoccupato all’Ardenza che ingegnere a Milano”. Troppo autoconsolatorio, quasi in linea con il “lungomai” raffigurato da Simone Lenzi quando, anziché assessore (e sceneggiatore), era ancora il frontman della migliore band indie di quella stagione musicale. L’obiettivo è: esser ingegneri all’Ardenza (o Antignano, in Venezia oppure a Parrana San Martino o Colognole), e senza accontentarsi di volare basso. E qui arrivava la sottolineatura che per vincere una mentalità diffusa fosse necessario un segnale anche dalle istituzioni: magari con una strategia attrattiva che aiutasse, tramite la leva della fiscalità locale o in qualsiasi altro modo, a creare un ecosistema di vantaggio in favore di start up, giovani professionisti e ricercatori. A cominciare dalla garanzia di una connessione di altissima qualità: perché contano ancora le infrastrutture stradali e ferroviarie per spostare merci e persone, ma adesso contano ancora di più le infrastrutture che permettono di far viaggiare i dati.

L’esigenza di avere un’alta qualità di vita non va equivocata con una sorta di vagabondaggio zuzzurellone o alle spalle dei risparmi dei genitori o limitando al minimo le proprie pretese. All’opposto, Livorno – o, per meglio dire, questa nostra Costa Ovest – possono essere il luogo dal quale mettersi in gioco nel mondo. Senza nascondere sotto un secchio il proprio talento. Del resto, una “fabbrica” della ricerca c’è già a Livorno: sono più di 300 i ricercatori che operano in centri universitari, multinazionali, imprese aerospaziali, grandi complessi industriali e piccoli laboratori. Basterebbe un più stretto legame con i dipartimenti del sistema universitario pisano (che conta anche nel Sant’Anna e nella Scuola Normale due poli di eccellenza) e mettere a frutto le connessioni con realtà ad alto tasso di innovazione come la grande nautica di Livorno, Pisa e Viareggio più il distretto della chimica-farmaceutica. Basterebbe: altrimenti qualunque talento non potrà far altro che fare la valigia, e qui arrangiarci fra noi con quel poco che resta. Proprio quel “poco”: il dossier della Fondazione Migrantes dice che Livorno è una delle città a più alta percentuale di emigrazione in Italia.

Vale dunque la pena puntare i riflettori su questo prestigioso premio ottenuto da uno scienziato dall’intelligenza fuori dagli schemi: non c’è bisogno di stare a sottolineare il talento individuale perché ciascuno non fa fatica a capirlo da sé. Ma c’è di più, ed è quel che si vede tutt’attorno alla “fotografia” del ritratto di Paolo Dario, come suggerisce lui stesso: c’è un sistema che merita di essere valorizzato perché è solo allevando la “cantera” delle intelligenze che noi toscani della Costa Ovest potremo fare come l’Atalanta o perlomeno come l’Empoli: stare al pari o talvolta davanti al grandi club calcistici europei se riuscissimo a mettere in piedi un vivaio di tipo atalantino; quantomeno giocare in serie A con una città che è 20-25 volte più piccola delle metropoli di Inter o Juve e contando su giocatori che hanno un monte ingaggi complessivo pari a un quarto o un quinto. Eppure il campionato è lo stesso.

Adesso siamo lontani anni luce dalla serie A del pallone ma giovarci del fatto che in passato qui abbiamo avuto glorie calcistiche come Lucarelli e Protti, Chiellini e Tacconi, Picchi e Balleri o Magnozzi (e ce ne sarebbero molte altre). Bisognerebbe lucidare le nostre vecchie memorie per ricordarci che sono stati ancora di più i “campioni” livornesi che hanno mostrato di essere fuoriclasse anche fra gli ingegneri e gli scienziati. Qualche nome?

Nel campo dell’auto: Giotto Bizzarrini e Aurelio Lampredi, entrambi alla corte di Enzo Ferrari, poi l’uno alle prese con il suo marchio di supercar e l’altro con l’ideazione di un bialbero Fiat rimasto leggendario; ma anche, per rimanere nel settore auto, sono labroniche alcune delle grandi firme del centro stile che, come Ivo Colucci, Mario Favilla e Franco Scaglione, hanno disegnato le Alfaromeo del mito.

Nel campo della chimica: Guido Donegani e Umberto Colombo, protagonista del decollo dell’industria chimica made in Italy il primo e guida di Eni, Enea e Cnen il secondo (oltre ad aver fatto il ministro nel governo del suo amico Carlo Azeglio Ciampi ma anche l’esperto per l’Ocse e l’accademico di équipe internazionali).

Nel campo delle macchine automatiche: togliamo le ragnatele dal nome di Tito Gonnella, che nella prima metà dell’Ottocento riesce a creare sia un planimetro per misurare aree irregolari sia un telescopio newtoniano (ora a Firenze, Osservatorio Ximeniano) ma soprattutto una macchina di calcolo talmente moderna da introdurre l’idea di tastiera per come la conosceremo quasi un secolo dopo.

Nel campo della fisica: mi viene in mente il nome di Mario Ageno, classe 1915, che si laureerà con lode avendo Enrico Fermi come relatore: sette anni prima era accaduto anche a Ettore Majorana, un talento che da solo varrebbe Messi e Maradona nello stesso cervello, e Ageno ce l’aveva fatta più rapidamente di Majorana (a 21 anni invece che 23). Sarà riconosciuto come il padre della biofisica, dopo aver lavorato in tandem con “i ragazzi di via Panisperna” nel Regio istituto di fisica dell’università di Roma.

L’elenco potrebbe continuare ancora, lo concludo qui: gli altri nomi forse li abbiamo visti da qualche parte, gli ultimi due no. Basterebbe questo per capire che di quel che c’è nel nostro “album di famiglia” sappiamo ancora troppo poco, e invece potrebbe essere l’ispirazione per capire davvero chi siamo. E forse pure dove andiamo: intanto, a fare la sciarpata con lo “0586” a Boston per rivendicare un pezzettino di quel premio che all’inizio del mese prossimo consegneranno a Paolo Dario, nato nell’onomastico di tal Pantaleo, metà santo e metà medico-scienziato. Proprio nel giorno in cui, 120 anni prima, è nato un altro ingegnere che tutti conosciamo ancora oggi: si chiamava Ludvig Nobel, fratello di Alfred. Avanti di farsi un nome per via del ben noto premio alle menti superstar, è stato un “ingegnere rinascimentale” con una forte vena di imprenditore e una ancor più forte attenzione al welfare state e alla redistribuzione dei redditi.

DALL’ARCHIVIO DEL BLOG: UN POST CON UN’ALTRA STORIA DECLINATA AL FUTURO

Nelle foto: L’ingegner Paolo Dario e l’immagine simbolica di una stretta di mano fra robot e essere umano (le immagini sono tratte dal web e ritenute di libero uso, se vi fossero dei problemi segnalateceli nei commenti così che possiamo immediatamente rimuoverle)

Una replica a “Lo scienziato livornese premiato con l’Oscar (mondiale) dei super-ingegneri high tech”

  1. Voglio aggiungere un ricordo personale. Ho conosciuto Paolo Dario di persona (ovviamente di fama in casa mia era arcinoto ) come padre di una mia alunna. Una persona squisita, che mai ha fatto pesare il livello della sua caratura rispetto ad una piccola e delle volte presuntuosa insegnante. Sono felice di questo riconoscimento internazionale, e ancora di più che abbia scelto di ritornare a vivere nella nostra zona. Paolo Dario ha sempre cercato di valorizzarne le risorse intellettuali e anche questo è un altro dei suoi meriti. Altri nomi significativi si potrebbero fare ( penso per esempio a Trumpi e a Lenzini ) ma Dario ha creduto e scommesso sugli ingegneri ad Antignano e per questo dovremmo essergli grati.

    "Mi piace"

Lascia un commento