La Resistenza dimenticata degli anti-eroi: i morti qualunque travolti dal terrore nazista negli ultimi giorni prima della liberazione

Nelle ultime settimane prima della liberazione di Livorno dai nazifascisti non c’è l’eccidio-clou tipo Sant’Anna di Stazzema ma una lunga striscia di sangue: muoiono persone normali senza la voglia di diventare martiri. Era la prima volta nella storia che la guerra ci veniva a cercare sull’uscio di casa con questo potenziale distruttivo.

di Mauro Zucchelli

Dev’essere per via del fatto che invecchio, dev’essere a motivo di questi tempi infami in cui in ciabatte in salotto o con le infradito e l’ambra solare sui Pancaldi ci si accapiglia perché, siccome gli azzurri non sono granché, prima dello spritz viene bene discutere se sono più carogne i macellai di Hamas o quelli di Netanyahu. Ci si ricordasse almeno del fatto che: 1) il massacro terrorista del 7 ottobre non assomiglia a un attacco partigiano ma semmai alle stragi pianificate dai nazisti per colpire chi senza dubbio era disarmato e non c’entrava nulla, solo puro terrore; 2) il criterio di proporzionalità della rappresaglia è un concetto che avevano ben presente perfino tipini come il generale von Mackensen e il colonnello Kappler, quando “limitarono” a dieci italiani per ogni tedesco ucciso l’entità della vendetta alle Ardeatine (che Hitler avrebbe voluto con rapporto 50 a uno).

La mancanza di empatia trasformerà la nostra Europa, culla di civiltà, nel cronicario di noi lungodegenti rancorosi e in declino. Per provare a uscirne, mi sono messo in testa di immaginare una “macchina del tempo” che mi riporti indietro di ottant’anni esatti esatti. Tradotto: siamo sul finire del giugno ’44 e fra tre-quattro settimane le truppe anglo-americane e i partigiani del Decimo Distaccamento della Brigata Garibaldi libereranno Livorno. In pochissimi giorni c’è il passaggio della linea del fronte: all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre il nostro Paese era stato in gran parte occupato dai nazisti. Ma non avevamo solo da mandare via la straniero, come la storiografia di marca comunista ha accreditato per lunghi anni, quasi a regalare a (quasi) tutti il certificato di buona condotta: al fianco dei nazisti c’erano i repubblichini che avevano rimesso in sella Mussolini come fantoccio di Hitler.

Era una guerra civile, insomma: e in quell’estate tutti sapevano a Livorno – quei pochi che erano rimasti dopo che nove abitanti su dieci erano sfollati – che la guerra sarebbe venuta a cercarli sull’uscio di casa.

Non è un modo di dire è la dimostrazione ce la offre una piccola storia dimenticata che ho ritrovato nell’Atlante delle stragi nazifasciste (il link è qui: www.straginazifasciste.it). È quella di Pietro Volpi, 48 anni compiuti a marzo, professione stradino, che la sera del 21 giugno di ottant’anni fa era semplicemente davanti alla porta della sua casa in via del Pastore, zona Ardenza: avrà sentito qualcosa? gli avranno bussato? voleva prendere un po’ di fresco perché aveva caldo? Non lo so, so solo che chi comanda – anzi, chi ha il potere di vita o di morte anche se è un signor nessuno di caporaletto – lo stabilisce il mitra. Pietro non ce l’ha, il soldato nazista sì è lo falcia all’istante. Senza essere minimamente un pericolo di niente: come avrebbe detto Primo Levi, “considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango / che non conosce pace / che muore per un sì o per un no”. Non c’è motivo né per il sì né per il no: dietro c’è il potere di determinarlo, che si tratti di una ragazza fatta a fette da Hamas o di un bambino palestinese crepato dissanguato.

Basta, torniamo a ottant’anni fa. Per immedesimarsi nei nostri genitori, nonni e bisnonni. È utile tuffarsi fra i giornali di quei mesi: di quei giorni non ne ho trovati né in emeroteca né negli archivi del Tirreno: potrei pensare che a un certo punto, con tutte le istituzioni trasferite altrove (tranne la diocesi), si sia ridotta al lumicino la vita civile e siano state sospese le pubblicazioni.

Ok, il regime detestava le brutte notizie: un camion pieno di persone vola giù dal Romito, otto morti e uno sfracello di feriti, finisce in una striminzito colonnino. Ma benché la censura avesse cento occhi, chiunque poteva capire cosa sarebbe accaduto di lì a poco: il 10 luglio ’43 lo sbarco degli alleati in Sicilia, una quindicina di giorni più tardi il re caccia il Duce e nomina Badoglio, l’8 settembre ’43 lo stop alla guerra agli americani e l’impacciato cambio di alleanze, a fine settembre l’insurrezione che libera Napoli, a gennaio l’inizio dello sbarco a Anzio, poi la lunga battaglia a Montecassino, a giugno la liberazione di Roma praticamente in contemporanea con lo sbarco in Normandia, a fine giugno l’arrivo degli alleati in Maremma. È chiaro che gli anglo-americani stavano risalendo la penisola dal Sud verso il nord: c’era praticamente scritto pure sul giornale fascista. Esempio: il giornale-satellite “Corriere del Tirreno”, 18 maggio ’44, catenaccio del titolo principale: “Su di una linea di 35 chilometri le eroiche truppe tedesche contengono da sei giorni le preponderanti armate anglo-americane”. Un po’ surreale, se pensiamo che stiamo parlando dell’Italia e a difenderla da quei tipacci degli alleati sono i tedeschi ma gli alleati sono più forti.

La propaganda sul “Telegrafo”, giornale della famiglia Ciano, funzionava così: dovevano essere talmente pochini e striminziti i successi militari del regime che le prime pagine insistevano non sulla guerra dell’Italia del Duce bensì su qualunque vittoria di Hitler anche nel paesino più sperduto: paradossale, se pensiamo che nella nomenklatura fascista Galeazzo Ciano era quello più diffidente nei riguardi del patto con i nazisti (e, al tempo stesso, non è lui che incredibilmente si mette nelle mani dei tedeschi per salvarsi dopo lo choc della notte del Gran Consiglio che sbatte fuori Mussolini?).

Oggi abbiamo preso familiarità con le frazioni di Karkhiv come se fosse fra Quercianella e Castiglioncello, allora invece i nostri nonni sapevano a menadito del balzo in avanti dei nipponici che arrivano «a Infal» (28 marzo ’44), dei «riusciti contrattacchi a est di Stanislav» (9 aprile), dei romeni che «difenderanno la Moldavia» (15 aprile), degli sfondamenti nazisti «a sudovest di Kovel» (29 aprile). Tutti i giorni c’è l’indicazione precisa di uno spazio geografico abbastanza lontano da far immaginare che anche la guerra sia lontana, non fosse per i bombardamenti dei cosiddetti “liberatori”, come curiosamente i fascisti chiamano gli americani assumendo implicitamente che c’è qualcuno che li considera così.

Ho detto di Pietro Volpi ma in quei giorni c’è anche un altro morto ammazzato a Ardenza: il mercoledì successivo in via Giuliano Ricci, dall’altra parte dell’Austria, lato stazione ferroviaria, viene ammazzato da un reparto di Ss un uomo di 54 anni. Si chiamava Orlando Marini e non stava facendo altro che cercare di sfuggire a un rastrellamento tedesco.

Non ho mai conosciuto né Pietro né Orlando ma dubito che avessero l’ambizione di diventare eroi: forse volevano semplicemente farcela a far passare sé stessi e la loro famiglia al di là del guado in un oceano in tempesta com’è il passaggio del fronte.

Quei due episodi di Ardenza già citati sono gli unici entro il perimetro di Livorno città, ma basta appena allargare lo sguardo per accorgersi che tutt’attorno c’è una alluvione di sangue. Parlano i numeri: nel resto dell’attuale territorio provinciale di Livorno una dozzina di episodi stragisti (con 38 ammazzati); in quello della provincia di Pisa sono tragicamente puntuali e “normali”, un giorno sì e uno no, 34 in due mesi, e le vittime sono 223.

Guardiamo quel che succede a San Piero a Grado, un pugno di case attorno all’antichissima basilica: la macchia di Tombolo lì vicina è diventata rifugio per molta gente che temono la violenza nazista: tre persone fanno capolino a San Piero a Grado perché avevano sentito dire che erano arrivati gli americani, un gruppo di soldati della 16a Ss-Panzer-Grenadier-Division “Reichsführer“ li intercettano. Sono disarmati ma chissenefrega: meglio morti, una raffica e il problema è risolto. L’indomani va a vedere cosa succede il maresciallo dei carabinieri che non li ha visti tornare (e che ha sentito anche lui i discorsi sull’arrivo degli americani): è sull’aia di una fattoria, i tedeschi lo beccano e decidono che anche per lui non c’è pietà. No, non c’è perché i corpi di tutta questa gente dovrà aspettare un mese e mezzo prima di poter esser sepolta.

Anche Nugola, fra Livorno e Collesalvetti, è macchiata per due volte nel giro di pochi giorni da torture e esecuzioni da parte dei nazisti: anche stavolta c’entrano uomini delle forze dell’ordine, si tratta di un gruppo di poliziotti guidati dal sottotenente Vittorio Labate che hanno avvisato i partigiani di come si muoveranno repubblichini e fascisti, hanno recuperato nella zona nera armi per la Resistenza, hanno partecipato all’attacco alla sede della famigerata Todt di Antignano e allo scontro a fuoco in cui sono caduti alcuni fascisti. È una spia repubblichina a condannarli a morte: lo intuiscono e scelgono di abbandonare il servizio in questura per darsi alla macchina con i partigiani. Ma il camion si guasta: vengono presi tutti e otto, anzi forse c’era anche una nona persona ma non si sa: li straziano e li fucilano. Oltre all’ufficiale, ci sono il vicebrigadiere Nicola Bucci e le guardie Giovanni Cannata, Francesco Citro, Washington Copernico, Orlando Marinai, Umberto Petrucci e Orlando Tonietto.

È il 23 giugno, lo stradino di via del Pastore l’hanno ammazzato due giorni prima. Cinque giorni più tardi il bis: i tedeschi ammazzano un giovane di 28 anni. Carlo Cavalli non è un pericoloso bandito, ha una sola colpa: sta cercando di fuggire a un rastrellamento perché non vuol essere carne da macello per i nazisti, deportato in Germania a far da schiavo.

Ancora qualche giorno, ai primi di luglio. Questa è la storia di tre ragazzi, vent’anni appena passati, che si nascondono in quei giorni nelle campagne fra Guasticce (il loro paese) e Crespina. Sono i fratelli Mammarella, Antonio e Domenico, più Lorenzino Adorni, il più piccolo di tutti e il più malato: vogliono solo diventare invisibili, sparire in mezzo ai campi e non farsi beccare dal reclutamento coatto tramite rastrellamenti. Ma dove ti vuoi nascondere in una pianura senza zone impervie e con il comando tedesco proprio a Crespina? Non solo li catturano, non solo li portano dagli aguzzini di villa Bastianini anche se è evidente che sono solo tre povericristi sbandati.

La ferocia in tempo di guerra ha leggi sue e quei tre ragazzi possono servire anche da morti: dopo averli fucilati davanti a tutti al muro di un negozio, li impiccano con il fil di ferro ad alcuni alberi di acacia lì accanto all’ingresso del paese. Così che tutti abbiano a vederli e imparino chi comanda: a cominciare dalla mamma dei due fratelli e dal loro parroco, mentre va a chiedere informazioni al comando nazista lei scopre i figli esposti come trofeo di caccia e monito imperituro.

Non mi piace che il corpo senza vita di Mussolini e dell’ultimo ridotto della sua gang sia stato oltraggiato in piazzale Loreto quando erano ormai cadaveri: ma lo scrivo qui sulla mia poltroncina, comodo, con l’acqua fresca in frigo, le albicocche buone e la mia panciona piena. Non c’era solo l’analoga esposizione nello stesso luogo dei corpi vilipesi di partigiani morti. C’è una lunghissima striscia di efferatezze, e se dico lunghissima sto basso: non basta la morte per rendere inoffensivo chi non costituisce nessuna minaccia militare, è quel di più di atroce che per esempio a Vada lascia esposti per tre giorni in piazza i corpi straziati di quattro abitanti, la cui unica colpa era esser stati beccati durante un rastrellamento punitivo-preventivo, cioè con i reparti regolari di un esercito ufficiale che praticano come tattica abituale il terrorismo.

A Vada tutto accade poco prima dell’alba del 20 giugno, forse c’è stato uno scontro a fuoco con i partigiani o forse è solo una chiacchiera, fatto sta che viene circondato l’abitato, si setaccia il paese casa per casa: i fascisti hanno fatto il nome di uno che sospettano di essere filo-partigiani, i tedeschi gli sparano prima che dica pè, fugge ugualmente e stavolta non c’è il lieto fine. Nemmeno per un altro che cerca di scappare. Ferito anche lui, chiedono di poterlo portare all’infermeria Solvay: permesso accordato ma è solo una finta, qualche centinaio di metri più in là parte la mitragliata che li fa fuori tutti. Ed è un miracolo che non siamo qui a piangere un’altra Sant’Anna di Stazzema: quella notte don Antonio Vellutini prega tutte le Madonne che conosce, perché i tedeschi hanno fatto radunare tutti gli abitanti in piazza e spesso questo ha un epilogo che tutti immaginano.

Ce la fa anche stavolta. Così come ce l’aveva fatta, insieme a tante altre persone di buona volontà, quando c’era stato da salvare, sempre nel giugno ’44, i bambini ebrei dell’orfanotrofio di Sassetta che sembravano destinati ai lager. Vengono dall’asilo livornese, sono sfollati a Sassetta e li sono sotto l’ala del segretario del fascio che in mezzo al caos del passaggio del fronte prova a farli sparire dentro un mare di burocrazia per evitarne la deportazione: fascista ma disposto a mettersi in gioco per 19 bimbi. Ma da Livorno gli ordini sono ordini: un camion di bimbetti da asilo, con tanto di maestre (alcune ebree e alcune cattoliche) e pur ela scorta dei carabinieri, deve arrivare a Vada per prendere il treno che li porterà in Germania. I carabinieri proteggono i bimbi, a Vada un oste li fa dormire nella sua trattoria.

Il treno lo prenderanno l’indomani mattina, ma viene presto mitragliato dai caccia inglesi: muore il macchinista. Fugone nel fossato per mettersi in salvo: bambini piccoli sotto le bombe, in una zona sconosciuta, con maestre e carabinieri mentre don Vellutini briga per offrire loro un riparo, perfino “nascondendoli” nella processione del Venerdì Santo. Invisibili perché sotto gli occhi di tutti. I carabinieri sono babbi anche loro e chiedono di riportarsi i bimbi a Sassetta, dappertutto c’è un bailamme di bombardamenti: è una follia trasferire bimbi da asilo in quel momento. Ma il diktat li fa arrivare non si sa come fino alle scuole Carducci di Ardenza, proprio nei giorni in cui i due cittadini ardenzini venivano ammazzati dai tedeschi. Ormai gli americani erano ormai vicini, ordini e istituzioni si dissolvono o fanno inutilmente la faccia truce: i militari dell’Arma si prendono i bimbi e li riportano a Sassetta, ci penserà un altro prete antifascista a consegnarli poi al cappellano ebraico della Quinta Armata.

Di episodi così – alcuni atroci, altri magnifici – potrei snocciolarne a bizzeffe: raccontano anche un aspetto che mi pare solo ora la storiografia approfondisca. L’opposizione al regime fascista fatta da tutto quel pulviscolo di persone qualunque che nascondono per una settimana qualcuno, portano il cibo a un fuggiasco, si rifiutano di consegnare qualcosa, fanno arrivare i documenti falsi a tizio e caio. Un bradisismo di milioni di piccoli gesti quotidiani che rompono le regole del gioco stabilite dal Duce. Certo, poi ci sono i partigiani combattenti e le formazioni della lotta armata soprattutto comunista (ma non solo). Ma c’è la rottura del guscio vuoto della propaganda: tanto pomposa e inutilmente estetizzante dannunziana quanto, in realtà, tronfia e inadeguata di fronte alla quotidianità che ciascuno ha sotto gli occhi.

Come i fratelli di Guasticce e il loro amico ci sono decine e centinaia e migliaia di ragazzi che semplicemente non vogliono imbracciare il fucile per andare in guerra al fianco di gente che disprezzano, che in paese o nel quartiere tutti conoscono come buoni a nulla. Possiamo già chiamarli antifascisti o partigiani? Forse ancora no: ma intanto quel gesto di darsi alla macchia come renitenti alla leva non è una furbata. È una scelta morale: dalla parte di quelli lì no. Di quelli che ci hanno portato a fare questa maledetta guerra, di quelli che predicano l’amor di patria ma si sono arraffatori gaudenti o psicopatici sadici, di quelli che sono contro chi lavora e contro chi vuole la libertà.

Al tempo stesso, bisogna tener presente che questo sussulto è multicolore e copre una vastissima galassia di posizioni politiche: prende corpo come forza combattente grazie al ruolo che hanno figure come Bruno Bernini per far maturare la consapevolezza. Anche a costo di esser duri contro sé stessi: mi ricordo l’episodio in cui un gruppetto di questi giovani aggregati ai gruppi partigiani si erano presi la libertà di rubare credo un maiale o forse un agnello a una famiglia di contadini. Una ragazzata. Il comandante non gli fece una ramanzina, un partaccione o una nota sul diario: li cancellò. Nel senso che avrebbero sì preso parte alle azioni di guerriglia ma lui li aveva messi ai margini e ai margini li terrà per anni e anni anche dopo, a guerra finita. Non si poteva, per una ragazzata, mettere a rischio i buoni rapporti dei partigiani con i contadini: essenziali per chi vive alla macchia.

Ricordiamolo: non era mai esistito che Livorno vivesse la guerra di massa dei tempi contemporanei, l’unica cosa che ci va vicino è la disperata difesa del maggio 1849, fucili coltelli forconi contro l’armata di uno dei più terribili eserciti di allora, quello austro-ungarico degli Asburgo-Lorena. Anche la Grande Guerra aveva visto sì l’attentato che aveva fatto saltare una nave all’Andana degli Anelli nel cuore del porto di Livorno e c’erano stati soldati livornesi morti al fronte. Ma al fronte, cioè lontano. Anche i bombardamenti alleati avevano causato lutti, distruzione e dolore. No, non c’è stata una battaglia casa per casa, con i cecchini in cima ai palazzi. Ma bisogna togliersi dalla testa l’idea che la liberazione dai nazifascisti sia stata un passaggio di consegne notarile: ieri comandano gli uni, l’indomani gli altri e arrivederci alla prossima.

Figuratevi che il comando della Quinta Armata temeva a tal punto una resistenza agguerrita che aveva stabilito, in vista della conquista della città, di prevedere un ultimo bombardamento a tappeto per spianare quel poco che rimaneva in piedi. Bisogna capirli: volevano ridurre al minimo le perdite dei loro uomini. Se almeno questa ce la siamo risparmiata lo dobbiamo ai partigiani del Decimo Distaccamento di Bruno Bernini: soprattutto a due ragazzi appena ventenni che prima portano dagli alleati un loro aviatore ferito e poi ripassano per la seconda volta il fronte per consegnare agli anglo-americani una mappa dettagliata delle posizioni naziste a Livorno. Lo racconto qui: https://ilmediterraneo.blog/2023/07/18/la-citta-salvata-dai-ragazzini-lultimo-bombardamento-di-livorno-evitato-in-extremis-da-cecco-e-gino/

In appena 61 giorni fra l’inizio di quel giugno ’44 e la fine del mese successivo si contano nella sola Toscana qualcosa come 448 eventi stragisti di marca nazista e/o repubblichina, in tutto sono 1.874 persone assassinate. Probabilmente come scelta strategica aveva poco senso attestarsi a Livorno a protezione della ritirata: i tedeschi avevano predisposta una linea difensiva fra Maremma e Trasimeno e poi ne piazzeranno una seconda sull’Arno ma giusto per avete il tempo di preparare la “linea gotica”: dalle Apuane all’Adriatico di Pesaro utilizzando gli Appennini come baluardo difensivo. È la linea difensiva che ha resistito da fine agosto alla primavera seguente: otto mesi di stop all’avanzata finale e alla svolta decisiva della guerra. Nel frattempo si avranno per mano nazista o fascista più di 2.200 eccidi, assassini di massa ed esecuzioni collettive in cui verranno ammazzate quasi 10mila persone. Non parliamo di morti in combattimento ma di stragi a freddo, pianificate per seminare il terrore nella popolazione e poter gestire con meno rischi la ritirata.

Gli ultimi giorni prima della liberazione di Livorno non sono stati una passeggiata: non c’è stata una “battaglia di Livorno” come dalle parti di Cecina ma c’è una lunga striscia di sangue. «Bisogna aggiungere al conto i partigiani morti combattendo», dicevo quando l’ho raccontata sul “Tirreno”: e questo vale nelle ultime settimane ma soprattutto nelle ultime ore prima dell’ingresso dei partigiani e della Quinta Armata a Livorno: mi riferivo a «Ero Gelli sul Romito, Aldo Piccini al Castellaccio così come Feliks Bikonaki, Lanciotto Gherardi alla Malavolta (Gabbro) e, pochi giorni prima, Silvano Pizzi a Nibbiaia e Renato Pini a Quercianella». No, non è stata una passeggiata.

Ps: cosa c’entra questa immagine con il resto? C’entra di sicuro lo dice l’intelligenza artificiale usata dalla piattaforma di questo blog. Ma come accade quando si racconta qualcosa, quel che salta fuori racconta per nulla, poco o comunque solo in parte la realtà per come è: spiega soprattutto com’è l’occhio di chi guarda. E allora mi domando: com’è quest’occhio se tira fuori quest’immagine? Non vi faccio vedere le altre, sono ancora più surreali: sembrano l’idea che potrebbe avere un tipo che vive in un buco tipo la contea di Harlan, Kentucky, 30mila anime zona Appalachi nell’America profonda che si immagina l’Europa come una roba un po’ vecchiotta, i partigiani come anziani signori disillusi chissà perché e il resto boh. Ma anche questo è solo il mio occhio…