La stranissima odissea che porta a Livorno Olafur Egilsson, pastore luterano che se ne stava tranquillo al circolo polare, in una “isola dell’isola” più piccola della Capraia. I pirati fanno razzia e sequestrano più di 500 persone e le portano nella “repubblica dei pirati” in Nord Africa. Siamo nel Seicento e…
di Mauro Zucchelli
Maledetti luoghi comuni: mai messo le (gli?) infradito, mai un tatuaggino nemmeno piccino picciò, mai il catenone d’oro e nemmeno le bermuda pure per andare alla messa pontificale o alla cerimonia dal prefetto. Eppure, giuro, il certificato di nascita attesterebbe che sono livornese: 100% 0586, come direbbe qualunque mio concittadino, salvo esser smentito dall’anagrafe storica che ci racconta come città dalle mille provenienze che si sono incrociate e imbastardite.
Ma quest’identikit del livornese tutto ombrellone, ambra solare e asciugamano è reale solo in parte: si pensi al fatto che a fine Ottocento Livorno era una sorta di Portofino ante litteram che accoglieva turisti vip (con la stampa locale che dava il benvenuto al commendator Tizio con consorte e via elencando).
Risalendo all’indietro forse addirittura qualcosa di più. Come in questo libro di viaggio che è stato una doppia odissea: ben differente per drammaticità dal “gran tour” dei giovin signori di famiglia-bene, ma anche una vicenda editoriale che sia in patria che fuori è stata talmente complicata da concludersi positivamente solo dopo quattrocent’anni.
«Gli uomini di Livorno sono estremamente ben vestiti: meglio, credo, che in qualunque altra parte del mondo o dei paesi nordici. Vestono seta e velluto, e non portano nulla tranne che camicie e giacche, che sono tagliate in cinque stringhe sulle spalle e lo stesso sulle braccia. I pantaloni seguono lo stesso stile (…). Lo stesso vale per gli abiti delle donne: i loro vestiti sono costosi e fatti con tessuti pregiati, tagliati molto bene e ben confezionati. Lo stile ricorda quello dei vestiti delle donne delle zone meridionali qui in Islanda. I loro corpetti hanno bottoni d’oro e d’argento, e persino bottoni di pietre preziose (…). Tutte le persone in città hanno capelli scuri ma pelle chiara, e con bei visi e corpi».
In effetti, quell’accenno all’Islanda del sud dovrebbe dirci qualcosa: magari per tener presente che il metro di paragone non è esattamente la corte di Versailles. Attenzione però, bisogna dribblare la tentazione di farsi idee strane su guerrieri simil-vichinghi un po’ bufali: noi dell’Europa civilizzata pensavamo alle crociate mentre qui l’assemblea dei leader delle comunità si inventava un Parlamento che è il più antico ancora in funzione al mondo (anche se allora era forse un caravanserraglio, a metà fra Woodstock, la festa dell’Unità e l’arrivo degli zingari di Melquíades dai Buendia a Macondo, prima di prendere le decisioni che contavano). Dovrebbe dirci qualcosa perché ci porta sulla strada di Olafur Egilsson, che agli inizi del Seicento viveva in quello scoglio d’Europa che è quasi un’anticamera del Nuovo Continente. Tanto che si ipotizza che gli esploratori europei che per primi misero piede su suolo americano furono i guerrieri islandesi vichinghi: magari prima che Galileo potesse anche solo immaginare di “suggerire” la rotta a Cristoforo Colombo, secondo l’immancabile gag di un noto comico, una delle «menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche» (cit. Allen Ginsberg).
Niente di pittoresco, Olafur Egilsson veniva proprio da lì. Tanto sul “Bollettino della Rivista Geografica Italiana” quanto negli annali dei “Nuovi Studi Livornesi” lo studioso Stefano Piastra ricorda l’unicità di questa esperienza: le terre del Profondo Nord virano verso il luteranesimo fin da quasi subito, dunque in una situazione in cui certo non c’erano i voli low cost o l’interrail ferroviario non c’era la spinta religiosa a sobbarcarsi l’avventura di un pellegrinaggio a Roma. Risultato: prima di Olafur, l’unico di cui si ha traccia scritta è l’abate di Munkathvera che prima degli inizi del Duecento si mette in viaggio per la culla della cristianità (e dalle nostre parti passerà nei pressi di Lucca).
Il nostro Olafur no: arriverà a Livorno e ne parlerà nel suo libro che vedrà la luce dopo secoli e secoli, titolo “Reisubók Ólafs Egilssonar”. Ma non sarà una vacanza di piacere: al contrario, si rivelerà una via crucis di patimenti e torture. Quando? Nel 1627: Piastra si premura di spiegare che in Italia resta dalla fine dell’estate al quasi inverno di quell’anno.
È in quello stesso anno che uno choc contrassegna per sempre la memoria della piccola comunità islandese – forse 30-40mila persone in tutta l’isola – con quel che nel curioso alfabeto locale viene chiamato “Tyrkjaránið”. Vedi alla voce: “rapimenti turchi”. Ma di turco c’è poco: è una doppia spedizione di pirati comandati da Murat Reis. Il nome rimanda a ascendenti berberi o qualcosa del genere: in realtà, era un tipaccio olandese, si chiamava Jan Janszoon e, siccome la “guerra ibrida” a bassa intensità non l’hanno inventata ora, si era infilato nella “guerra sporca” fra le potenze commerciali incardinate nei Paesi Bassi e quelle dell’impero spagnolo. Ci aveva preso gusto e, forse perché a sua volta catturato e fatto prigioniero, aveva spostato il proprio campo base sulle coste nordafricane trasformandosi in un mix fra l’agenzia “terroristica”, l’agente provocatore, il corsaro per conto terzi cambiando rapidamente committente e obiettivo degli attacchi. Mettiamoci in mezzo pure l’ascesa all’ombra di Sulayman Rais, nome arabo ma origini olandesi pure lui, che guardacaso verrà centrato da una provvidenziale cannonata. Ecco, ci sono tutti gli ingredienti perché Murat Reis (o Jan Janszoon che è uguale) si ritrovasse al vertice della città-stato marocchina di Salé in cui i clan dei pirati si autogovernano. Prima in odio al sultano e poi in suo nome…
L’ho fatta lunga come al solito, ma bisogna capire che qui la storia che abbiamo studiato a scuola vale fino a un certo punto. Tanto l’Islanda come la repubblica piratesca di Salé sono un mondo del tutto a parte rispetto all’Europa dei sovrani assoluti e della Guerra dei trent’anni. Non solo: Livorno è da pochissimo tempo riconosciuta come città, il granduca ha firmato le “leggi livornine” una trentina d’anni prima e si è messo in moto l’arrivo di famiglie da mezzo Mediterraneo, soprattutto ebree e soprattutto perseguitate. È da pochissimo che c’è un “sindaco” (gonfaloniere).
In questo palcoscenico storico, accade che nel giro di un mesetto, a partire dalla seconda metà di giugno, una spedizione piratesca ottomana raggiunga l’Islanda: complicato che i pirati barbareschi si spingano fin quasi al circolo polare artico? Ma è solo la distorsione mentale di pensarci noi europei mediterranei come se fossimo l’ombelico della galassia. Fatto sta che i pirati di Murat (o Jan) se ne vanno dall’ovest dell’Islanda solo dopo aver catturato e fatto schiavi un buon numero di persone: probabilmente oltre mezzo migliaio di islandesi, forse ottocento.
Tutta gente fino a quel momento fuori dal mondo sì, ma neanche così tanto. Leonardo Piccione, lo scrittore di quella meraviglia che è “Il libro dei vulcani d’Islanda”, segnala che – siamo ancora nel Seicento – ci sono contatti un po’ amichevoli un po’ burrascosi fra gli islandesi e i commercianti baschi. Questi ultimi sono a caccia di balene: soprattutto puntano alla sostanza cerosa che i capodogli hanno all’interno del capo (la venderanno agli olandesi per farne profumi e candele, mentre i molti quintali di polpa saranno barattati sull’isola «in cambio di pecore, latte, guanti, calze e qualche cane».
Olafur è una figura particolare, e non solo perché arriva (controvoglia) dall’angolino più sperduto di tutta l’Europa: in quella comunità isolata fa il reverendo. È un pastore protestante di 63 anni quando viene rapito insieme ai due figli e alla moglie incinta. Il bambino nasce durante questa odissea, e già questo potrebbe farci capire quanto sia stata dura questa esperienza, con un parto in condizioni igieniche al limite. Ma è solo metà della via crucis: una parte degli islandesi fatti schiavi viene sbarcata a Salè e il resto ad Algeri, fiorentissimo mercato mediterraneo (anche come tratta di esseri umani). Per Olafur è riservato un trattamento a parte: lo separano da moglie e figli, vede il figlio più grande venduto come schiavo. Il reverendo viene individuato da un signorotto del luogo: sarà Olafur, già di per sé abituato a essere il punto di riferimento della comunità, ad andare dal re di Danimarca (che governa anche l’Islanda) per farsi dare i soldi del riscatto.
Lo schema narrativo è semplice: siccome i pirati hanno in pugno il resto della sua famiglia, Olafur righerà dritto. Formalmente è un uomo libero, ma c’è un “ma”: non ha un soldo e deve risalire l’Europa. Quasi 4mila chilometri, e mica c’è Ryanair. Non è tutto: alla fine arriva a Copenhagen, alla fine riesce anche a farsi ricevere dal re. Immaginatevi però quest’uomo quando il sovrano gli dice papale papale che a tirar fuori quei soldi non ci pensa nemmeno di striscio.
È ormai un uomo sconfitto quando torna nella sua “isola dell’isola”: Heimaey è a malapena uno scoglio – più piccolo della Capraia – qualche miglio al largo delle coste dell’Islanda meridionale. Apro una parentesi dedicata alla microscopica isola di Olafur perché è una “storia dentro la storia”: il rapimento seicentesco da parte dei “turchi” – che, come detto, sono in verità nordafricani capitanati da un olandese convertito – ha lasciato una traccia talmente terribile nella memoria collettiva che le leggende locali ne immaginavano il ritorno qualora si fossero concretizzate tre cose: 1) se l’abitato si fosse espando al di là di un certo luogo storico (Hásteinn); 2) la chiusura della piscina “Vilpa”; 3) l’arrivo del figlio di un vescovo a Heimaey. Nel ’73 accade, ma stavolta a minacciare gli islandesi dell’arcipelago non sono i barbareschi ma l’esplosione delle viscere del vulcano. Domata scaraventandogli addosso l’acqua di mare. Risultato: distrutto un terzo delle case ma l’isolotto si allarga e ha due chilometri quadrati di terra in più. Di abitanti pochini, in compenso ci sono milioni di pulcinelle di mare, un buffo e coloratissimo uccello dal fascino singolare: un quasi-pinguino con i colori del tucano…
Torniamo però a Olafur Elilsson, il protagonista. Si mette a scrivere le memorie: diventerà un classico della letteratura islandese di età moderna eppure l’edizione a stampa arriverà più di un secolo dopo, sarà conosciuta nella versione in lingua danese (e comunque un libro come dio comanda lo vedremo solo qualche anno fa). Il cuore di Olafur si fermerà per sempre nel 1639: poco prima di morire avrà la gioia di riabbracciare la moglie rilasciata dai pirati dopo dieci anni di prigionia. I figli no: quelli non li vedrà più.
Il reverendo islandese dell’isolotto di Heimaey non è l’unico ad aver fatto ritorno in patria fra quanti erano stati rapiti dai pirati. Ancora oggi fra bestseller e opere teatrali spicca nella cultura islandese la figura di Guðríður Símonardóttir, moglie di Eyjólfur il pescatore: lui riesce a fuggire dai pirati, lei si fa i suoi bravi dieci anni di schiavitù finché stavolta Cristiano IV di Danimarca si impietosisce e paga il riscatto. Ma prima di rimetter piede in Islanda deve passare un periodo di “rieducazione” in Danimarca: come in una telenovela senza troppa fantasia, lei a un passo dai quarant’anni si innamora del giovane educatore poco più che ventenne e studente di teologia che le hanno messo al fianco. Resta incinta: il bebè mi pare porti il nome del primo marito morto, avranno anche altri due piccoli, entrambi morti in culla o quasi.
Quel che non ho detto è che lo studente si farà strada: campanaro il babbo, vescovo lo zio e aspirante teologo lui. Diventerà uno dei principali poeti della storia islandese, i suoi “inni” luterani dedicati alla passione di Gesù Cristo sono sopravvissuti al trascorrere dei secoli. Poteva l’ex schiava scampare alla nomea di essere in combutta con i suoi ex carcerieri, dunque infiltrata dei musulmani che seduce il giovane intellettuale? No che non poteva, figuriamoci: solo di recente è stata ribaltata la narrazione e ora è un personaggio positivo, sfaccettato, singolare.
Rieccoci a Olafur: soprattutto Olafur e Livorno. L’arrivo è via mare, ovviamente. La rotta più semplice prevede una tappa in Sardegna: senza cercar guai, solo un po’ di acqua. Ma le popolazioni sarde sono già state scottate: gli stranieri sbarcano, ti rubano il lavoro e poi ti depredano anche. Nisba: la nave se ne ritorna verso Malta, poi via Messina risale il mar Tirreno e arriva a Livorno. Anzi, a Lifornò, come scrive il Nostro: inutile dire che c’è la quarantena. Mentre la crescita della città è impetuosa: lato porto ma anche nel cuore della città con una sfilza di grandi cantieri destinati a disegnare la fisiognomica della città per i secoli a venire (nasce la Venezia e il Porto Mediceo diventa grossomodo quel che conosciamo.
Doppia è la tappa livornese: l’una è lo sbarco in terraferma, l’altra è il ritorno due settimane più tardi. Il motivo? Il nostro Olafur islandese è senza un soldo e campa di carità ma a Livorno trova un altro Olafur, norvegese, mercante di buon cuore che gli crea una rete di solidarietà nordeuropea. Ma il pastore islandese vuol andare dal sovrano danese i quattrini per riavere la famiglia: si incammina verso nord e arriva forse fino al Brennero o alla Baviera. Lo ospita una vedova che lo implora di non proseguire il viaggio: a nord ci sono gang di soldataglia dell’imperatore che arrotondano facendo i briganti. Meglio tornarsene in quella Livorno cosmopolita dove può trovare aiuto negli scandinavi.
Livorno viene descritta come una città «non molto grande», e in effetti a quel tempo doveva avere 8-9mila abitanti: «Uno può farvi un giro attorno in due ore, ma – cito ancora il testo riportato da Piastra – penso che sia difesa in modo da essere inespugnabile: ha due solidi giri di mura in mattoni e un profondo fossato». Gli edifici «sono alti tre piani e costruiti molto bene, in molti luoghi le case sono dipinte magistralmente». Aggiungendo poi: «Ci sono 23 chiese, due delle quali molto grandi, costruite di marmo grigio e decorate con oro e argento tutt’attorno al soffitto e ai muri, giù fino al pavimento».
Tutto bene, tutto rose e fiori? Mica tanto: Olafur bussa alla porta di un convento cattolico per trovare un tetto e un letto: lui sarà sì un pastore protestante ma è pur sempre un cristiano. I monaci lo rimbalzano: grossomodo gli consigliano (bruscamente) di andarsi a far aiutare da Lutero. “Prima i cattolici”, verrebbe da dire: gli altri li aiutino i suoi a casa loro…
Il Nostro non se la prende manco un po’: «Anche se si lavassero con lisciva e con sapone, – si limita a dire – servirebbe solo a mostrare in modo ancor più chiaro la loro mancanza di fede e disonestà». Del resto, la riforma protestante era appena del secolo precedente, il riassetto tridentino della Chiesa cattolica risaliva a ottant’anni prima, c’era l’Inquisizione (ma forse quella spagnola, la più tremenda, era meno tremenda di quel che i cattivoni dei luterani e degli illuministi hanno gridato poi): e proprio in quel periodo c’era il processo a Galileo.
Il racconto del reverendo Egilsson, però, mette l’accento anche su qualcos’altro: il monumento dei Quattro Mori. E forse non è un caso, per almeno un poker di motivi. Il primo: solo pochi mesi prima le sculture dei pirati sono state poste ai piedi del granduca sul piedistallo, ed è probabile che non si parli d’altro in una Livorno che allora era appena più grande dell’attuale paese di Guasticce. Il secondo: il monumento a un principe della cristianità, che a Livorno ospita il quartier generale dei Cavalieri di Santo Stefano in lotta contro i pirati barbareschi, parla al cuore di un reverendo rapito proprio dai pirati saraceni e ora in cerca di aiuto da un sovrano cristiano in Danimarca. Il terzo: uno dei Quattro Mori di Livorno viene chiamato Alì Salettino, ed è chiaro il riferimento diretto alla città-covo dei pirati che hanno rapito Olafur. Il quarto: quel gruppo scultoreo è l’antipasto di quel che vede per le strade della città in uno strano corteo di persone in carne e ossa.
Già, perché in una delle descrizioni che il reverendo islandese dedica a Livorno – la riprendo ancora da “Nuovi Studi Livornesi” e dal prezioso lavoro di Stefano Piastra – c’è una scena che contrassegna «ogni mattino che passai là». Un centinaio di persone che si muovono «in catene, a coppie, come si usa con i cavalli»: una sfilata stranissima se è vero che «tali persone erano completamente nude eccetto per un piccolo lembo di veste che ne copriva le “vergogne”»; accanto a loro una coppia di sorveglianti. E con loro «un cervo, le cui corna erano state tagliate, e anche due grandi arieti, e una volpe e una scimmia, entrambe con vestito rosso». Non solo: volpe e scimmia camminavano sulle zampe posteriori, avevano spada su un fianco, scarpe nere alle zampe e cappelli in testa; dai pantaloni usciva la coda. Con una sottolineatura: «Cosa significasse tutto questo, faccio fatica a capirlo».
Lo studioso prova a dargli una risposta: forse un gruppo di animali da circo insieme a artisti e saltimbanchi ma soprattutto il corteo di pirati barbareschi fatti prigionieri. Ed esposti al pubblico ludibrio: serve come rito di umiliazione del nemico (vi facciamo fare una brutta fine senza dignità) così come di rassicurazione della propria comunità (cari livornesi, c’è il granduca che vi protegge).
Ma il monumento dei Quattro Mori così come il corteo dei pirati fatti prigionieri ci sposta all’inizio di questa storia, che è una storia di schiavismo. Fermiamoci qui, per ora: se Fernand Braudel, uno dei più grandi storici del Novecento europeo, paragonava la Livorno di inizio Seicento principalmente a Algeri, un motivo ci sarà.
DALL’ARCHIVIO DEL BLOG: A PROPOSITO DI PIRATI…
Nelle foto: si tratta in genere di disegni reperiti in rete, e dunque ritenuti di libero uso, per illustrare il racconto del rapimento di islandesi da parte dei pirati nel 1627 (se vi fosse qualcosa in contrario, vi prego di comunicarlo nei commenti e provvederò immediatamente a rimuovere l’immagine). Ma voglio dedicare una segnalazione specifica alle prime due immagini: la prima è una antichissima carta geografica islandese, la seconda è un’opera di Þrándur Þorarinsson dal titolo “Tyrkjaránið, Turkish raid on Vestmanna-islands, 1627” ed è del 2010. Le ho tratte dal prezioso sito web https://unitalianoinislanda.com in cui Roberto Luigi Pagani offre interessanti spunti; vi invito caldamente a visitarlo, scoprirete un mondo. La terza è la stampa con cui è stata presentata nel 2021 una conferenza che aveva al centro il rapimento del 1627 fra romanzi, ricerche storiche e approfondimenti: in tutta evidenza si tratta di Livorno, al centro c’è il monumento dei Quattro Mori
Che bella storia, una pagina almeno per me sconosciuta. Grazie come sempre bravo e didattico.Saluti Massimo
ma viene sempre l’articolo sulla resistenza dimenticata!
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La app doveva risolvere un problema di aggiornamento e ha fatto una frittata. Il link è quello ma aggancia il post sbagliato. Sto cercando di porre rimedio ma non sarà semplice. Vediamo. Altrimenti mando le pecore dell’intervallo e una musica d’arpa. Sorry