Pio VII era appena rientrato a Roma dopo la lunga prigionia, da sud arriva la minaccia di una invasione: la cronaca della rocambolesca fuga in carrozza, il pontefice si affaccia dal balcone del Palazzo Granducale (oggi sede della Provincia)
di Mauro Zucchelli
Càpita di trovarsi all’incrocio degli eventi: magari senza manco volerlo, magari mentre la storia si mette a correre e nemmeno t’immagini dove vada a parare. Siamo agli inizi dell’Ottocento: in un pugno di anni piomba anche qui da noi la travolgente ondata della rivoluzione francese che poi, con una capriola, si trasformerà nel turbinoso cambiamento guidato da Napoleone. Origini in Corsica ma curriculum degli antenati e genealogia della dynasty ben piantati in Toscana, se è vero che al padre l’accesso ai ranghi della piccola aristocrazia isolana lo dànno le parentele familiari targate San Miniato (ma i Bonaparte tenevano invece a figurare come fiorentini) e gli studi all’università di Pisa.
Non lasciamoci rincitrullire dalla favola di un passato che solo la nostra ignoranza vede quasi immobile o tutt’al più con impercettibili mutamenti al rallentatore: basti pensare all’ascesa rapidissima e al crollo repentino della stella di Napoleone, che in breve diventa il conquistatore d’Europa e altrettanto rapidamente perde tutto. Quasi tutto: nell’aprile 1814 a Fontainebleau il fronte anti-napoleonico che raggruppa le potenze di mezza Europa regola i conti contro quel Napoleone che aveva messo in un angolo le teste coronate di tutto il Continente.
A Napoleone viene ritagliata una via d’uscita che lo renda uno di loro ma di serie C: un principato tutto per lui, ma limitatamente all’isola d’Elba. Qualcosa di più di un esilio dorato a non far nulla ma senz’altro assai meno dell’impero costruito su scala europea in pochissimo tempo: e dunque non più una minaccia per i sovrani impauriti e infuriati.
Dunque, se a metà aprile Napoleone mette piede all’Elba, è però il 4 maggio – potenza dei simboli, è la vigilia di quel 5 maggio che appena sette anni più tardi ne segnerà la fine nell’isola sperduta di Sant’Elena in mezzo all’oceano – la data formale dell’editto di insediamento.
Logico che la storia si racconti come una visione e un filo rosso: altrimenti è solo un susseguirsi di fatti in forma di babele, una macedonia di eventi che sono solo perché sono ma guai a interpretarli. Attenzione, tuttavia, a non farne cartonati che si muovono come nel peggior teatrino dei burattini. Guardiamo qui: è ingarbugliato il rapporto fra Napoleone e Murat che lui insedia come re a Napoli (e che vorrebbe nelle sue armate ma forse no perché gli fa ombra e il franco-napoletano che vorrebbe affrancarsi dall’ombra del Còrso ma non del tutto). E Napoleone non viene forse incoronato monarca assoluto lui che l’assolutismo l’aveva spazzato via? E la Restaurazione, quante cose che tornano fino a un certo punto. Per dirne una: a Piombino invece di riportare in sella i Boncompagni Ludovisi, si inventa l’affidamento al Granducato fiorentino. Per dirne un’altra: già il granduca lorenese, prima di Napoleone, non era esattamente un ottuso sovrano assoluto, adesso quasi riprende il filo lasciando in essere anche alcune delle innovazioni che il sistema napoleonico aveva apportato. Ma anche: sarebbe interessante capire il rapporto fra Napoleone e Murat, quasi coetanei, giovanissimi militari quando s’infilano nella rivoluzione francese e in ascesa in coppia quando poi esce di scena Robespierre, con Murat che di Napoleone sarà anche il cognato…
Ma fin qui sto menando il can per l’aia. Detto tra parentesi, cambia un po’ pure la geografia: sotto Napoleone, Livorno si ritrova dal 1808 al 1814 capitale di un dipartimento del Mediterraneo che fa parte della Francia. Contr’ordine, si ritorna poi sotto Firenze (che, come detto, si mangia pure Piombino). Dovrei aggiungere che all’Elba l’ex piccolo grande Imperatore ci si mette di buzzo bono ma ci sta pure un po’ strettino: dovete capirlo, puntava al dominio sull’Europa e in un amen ruzzola giù fino a governare un’isolina. Oltretutto avendo addosso gli occhi inglesi di sir Neil Campbell che doveva capire se quel pericolo pubblico potesse tornare a minacciare l’ordine costituito.
Campbell un bel martedì di fine febbraio 1815 ha la brutta idea di andarsene a Livorno per certi suoi affari, Napoleone piglia la palla al balzo e scappa dall’Elba per tornarsene in Francia: accolto come l’ “uomo della provvidenza”, inutile dire che si monta la testa e si butta anima e corpo per ridiventare quel che era. Il film dell’epopea dice che gli eserciti mandati a catturarlo in realtà cambiano bandiera e si uniscono a lui. Spoiler: durerà cento giorni, a giugno si rompe la testa contro la coalizione anti-lui a Waterloo.
Nel frattempo, però, accade anche qualcos’altro (tanto per capire che anche allora ogni giorno sembrava una giornata storica): il suo (fido?) Murat alla guida dell’esercito napoletano filo-Napoleone va all’attacco della Chiesa. Flashback al manuale del liceo: il pontefice non è solo una autorità morale com’è adesso, ha un suo Stato che occupa una bella fetta di Centro Italia e qualcosa di più.
E qui entra in scena la nostra storia particolare: un dettaglio – ma curioso – nel mare magnum di quel che accade in quei mesi sullo scacchiere d’Europa. Nello specifico, a dar fuoco alle polveri è un doppio tassello del puzzle: quasi in contemporanea con Napoleone che lascia l’Elba per riprendersi la Francia (e l’Europa), ecco che da Napoli parte Murat, vuol regolare una volta per tutti i conti con lo “Stato del Papa”. In concreto: ordina al proprio esercito di attaccare il pontefice.
C’è da dire che Pio VII non sarebbe neanche un campione di intransigentismo assolutista: anzi, a modo suo è forse un mezzo riformatore, nel senso che prova a evitare lo scontro con il mondo napoleonico. Mica si scherza: era previsto che conventi, chiese, basiliche e monasteri venissero requisiti, tolti agli ordini religiosi e ai possedimenti ecclesiastici (anche se poi Napoleone cercherà una qualche legittimazione da parte del papato, purché righi dritto e faccia quel che dice lui).
Occhio anche qui alle date. L’anno è il 1815: proprio mentre – fra feste danzanti, pasticcini alla crema e bisbocce pantagrueliche – il Congresso di Vienna vuol ridisegnare la geografia d’Europa ma soprattutto riportare in auge i vecchi sovrani deposti da Napoleone. Il mese è marzo: agli inizi, c’è l’arrivo di Napoleone in Francia, talmente trionfale da fargli credere che siano tornati i bei tempi andati; alla fine, c’è papa Pio VII che scappa da Roma per mettersi in salvo. Ed è qui che nella Grande Storia si incista il mio piccolo racconto di come la fuga del pontefice sia approdata a Livorno.
Però prima bisogna spiegare come mai, con mezza Europa cattolica mobilitata contro tutto ciò che odora di napoleonico, il papa senta il bisogno di darsela a gambe da San Pietro piuttosto che richiamare (ordinare?) l’intervento per bloccare Murat. Il fatto è che proprio Pio VII l’aveva già assaggiato cosa vuol dire esser rapito: quando Napoleone era Napoleone davvero, nel luglio 1809 i soldati francesi entrano nel palazzo del pontefice e lo catturano. Di notte se lo portano via e, passando dalla Toscana, lo portano nel giro di un paio di settimane o forse meno fino a Grenoble.
Doveva essere il modo per mettere in ginocchio un pontefice tutt’altro che ostile al senso del vento di rinnovamento portato dai francesi e tutt’altro che in buona salute. Se non ricordo male, il dipinto di Jacques Louis David che immortala il papa che incorona imperatore Napoleone mostra che Pio VII, seduto, è più basso di Napoleone che, in piedi, mostra lui stesso la corona che di fatto si auto-consegna. In pratica, Pio VII è lo spettatore-legittimatore di un rito di passaggio che sta tutto nelle mani di Napoleone.
Solo che il rapimento del papa è un cerino buttato sulla benzina del sentimento anti-napoleonico che gira fra le corti d’Europa: esplode il risentimento anti-francese e le teste coronate hanno gioco facile ad alimentare la rabbia plebea. Napoleone annusa l’aria e devia la carrozza del pontefice lontano da Parigi: Pio VII resterà rinchiuso nel palazzo vescovile di Savona per tre anni.
Non solo: bastava tornare indietro di pochi anni e, a cavallo fra Natale 1797 e il febbraio successivo, dopo l’assassinio di un generale francese l’esercito rivoluzionario transalpino sbaraglia le guardie del papa e occupa la città, proclamando la repubblica e portandosi via il papa, che a quel tempo era Pio VI (un nobile di Cesena così come il suo successore che porterà lo stesso nome). Anche Pio VI ha conosciuto rapimento e prigionia, ma a Siena.
Torniamo a quel marzo 1815: con questi antefatti è facile intuire come mai Pio VII se ne vada da Roma. Il 29 marzo arriva a Livorno. Non c’erano le storie su Instagram ma nemmeno le foto: a mettermi sulle tracce di questa storia è stata una antica stampa ottocentesca che mi pare di ricordare d’aver visto a Palazzo Rosciano, sede dell’Authority portuale livornese. Con una buffa svista nella catalogazione ministeriale: si parla di millimetri anziché di centimetri, dunque quell’immagine grande un po’ più dello schermo del mio pc sembrerebbe per errore ridotta a francobollo.
Si vede Pio VII, incredibilmente somigliante benché poco più di un puntino, sul balcone del Palazzo Granducale: l’attuale sede della Provincia era però un po’ più avanti rispetto a dov’è stata ricostruita dopo la distruzione per via del bombardamenti del 1943-44. In piazza Grande non c’è ovviamente il “nobile interrompimento” del Palazzo Grande ma non c’è nemmeno il campanile del duomo. Una gran folla, comprese le guardie a cavallo, un po’ di fedeli che guardano meravigliati verso Pio VII sul balcone, uno è in ginocchio e lì vicino un mendicante.
Tanto per lasciare le cose un po’ in sospeso nella narrazione, occorre aggiungere che i “francesi di Napoli” si contraddistinguono per una sorta di “via napoletana al napoleonismo”: i ranghi dell’apparato statale vengono riempiti di napoletani dopo l’ondata dei francesi, perfino l’ultranapoleonico Murat comincia a giocare in proprio e strizza l’occhio alle potenze sue avversarie per vedere se c’èa spazio per esser lasciato in pace qualora Napoleone crolli. Insomma, un ragazzo sveglio che negozierebbe anche con il diavolo e forse giocherebbe con lui a chi è più satanasso.
Svegliotto, ancorché malconcio, doveva esserlo pure Pio VII: dice che c’è da affrontare nient’altro che «un temporale che durerà tre mesi», così su un numero del 1938 di “Liburni Civitas” rievoca Ersilio Michel, prof livornese e studioso di storia patria. Lo fa segnalando però che stavolta non si farà beccare e se ne va al sicuro anche se siamo ad appena dieci mesi di distanza dal rientro a Roma dopo la prigionia precedente ad opera di Napoleone. Il pronostico l’ha sbagliato di 15 giorni ma, se temporale ha da essere, meglio aprire l’ombrello e fare momentaneamente la valigia. Cosa sorprendente per noi oggi: i papi vengono rapiti e tenuti in ostaggio. Non è tutto: per ingarbugliare le carte va detto che 1) proprio l’Austria cattolicissima è quella che taglia le gambe a Pio VII appena eletto, 2) Pio VII è disposto a venire incontro alla modernità napoleonica e va pure a Parigi a incoronarlo e ha un atteggiamento non reazionario di fronte ai nuovi tempi. Tuttavia: o non lo ricordiamo affatto o ci resta in testa, come fosse un intransigente qualsiasi, unicamente quella frase del «non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo» come risposta all’ufficiale che va a chiedergli di sottomettersi alla Francia.
Questa visione a metà finisce per scansare ogni dubbio sulle capacità politiche di Napoleone che forse pensava semplicemente di esser il più figo di tutti ma anche per consegnare al campo papista reazionario un pontefice che forse era assai meno tagliato con l’accetta. Ad esempio, Pio VII mostra aperture nel riconoscimento del valore della democrazia (e mentre nel resto d’Europa si va verso il ritorno dell’antico regime) come pure verso le teorie di Galileo. Occhio, non è una figura consegnata solo al passato: la causa di beatificazione di Pio VII è partita negli anni dell’episcopato di papa Ratzinger, che forse per qualche aspetto si era rivisto in Pio VII, che come lui è stato uno dei rarissimi casi di pontefice che negli ultimi secoli ha celebrato il funerale del predecessore.
Il papa via da Roma per evitare il bis del rapimento: la sera del 22 marzo 1815 – parola di Michel – Pio VII è a Viterbo, il 24 a Siena e il pomeriggio dell’indomani a Firenze dove il granduca e i suoi dignitari lo ospitano a Palazzo Pitti con tutti gli onori. Ma la rete di spie e informatori sui quali un papa può contare – anni prima a Savona i secondini napoleonici gli impedivano perfino di leggere perché si erano accorti che il pontefice continuava a tenere saldi contatti con l’esterno grazie ai “pizzini” di alcuni collaboratori – ha intercettato le intenzioni delle truppe di Murat di attaccare il Granducato e puntare su Firenze. Dunque: bisogna andarsene e cercare rifugio a Genova.
È quel che gli suggerisce il cardinal Bartolomeo Pacca, già prosegretario di Stato sotto Pio VII e come lui prigioniero durante il periodo del sequestro da parte di Napoleone, poi “ministro” facente funzione quando l’astuto cardinale Ercole Consalvi (di origini pisane) viene inviato al Congresso di Vienna.
Pacca si premura di spianare la strada al pontefice. Ho scovato alla Biblioteca Labronica di villa Fabbricotti a Livorno le sue memorie datate 1834: è un lungo documento specifico dal titolo “Relazione del viaggio di papa Pio VII a Genova nella primavera dell’anno 1815 e del suo ritorno in Roma”. Spiega che «l’ottimo Re Vottorio [sic] Emanuele sovrano allora di Genova» fa sapere, «per mezzo del suo Ministro Marchese di San Saturnino», che è disposto a «offrire al S. Padre un asilo ne’ suoi stati».
Ma il cardinale deve avere qualche bega con altri esponenti della curia: si capisce da come racconta la fuga del papa, per la quale lui prende tempo fino all’ultimo: teme che vogliano portare il pontefice in Lombardia per portarlo poi a Vienna e giocarlo sullo scacchiere del Congresso filo-Restaurazione. Pio VII si fa convincere dalla fazione che spinge perché intanto vada a Viterbo, poi si vedrà. Pacca non nasconde il disappunto anche perché glielo dicono a cose fatte: oltretutto toccherà a lui gestire di fronte ai fedeli questa fuga, così poco tempo dopo l’altro rapimento. Scrive un messaggio da diffondere fra i fedeli e uno destinati ai più alti prelati perché sappiano che i napoletani di Murat sono già in territorio pontificio. Non è tutto: il cardinal dice chiaro e tondo che ha voluto accelerare la fuga di Pio VII chi, con il ritorno del papa dalla precedente prigionia, è stato rimosso per averne fatte di tutti i colori.
Pacca lo raggiunge a Firenze, ma Murat è già alle porte della Toscana: dalla capitale del Granducato – racconta Pacca – si parte «la sera del 28 prendendo la strada di Livorno dove si giunse la mattina seguente». Non so come sia stato possibile, mica potevano passarsi la notizia via Whatsapp o fare una diretta Facebook, ma il cardinale giura che il viaggio papale nella notte è avvenuto «in mezzo a una folla di popolo», con «quasi tutti gli uomini e le donne [che] tenevano nelle mano un lume, o in fiaccola o in lucerna», così da «accompagnare per qualche spazio di strada la carovana del Papa correndo e chiedendo ad alta voce la benedizione».
Qui vale la pena tornare a far parlare Ersilio Michel. Appena si capisce che Pio VII arriverà a Livorno, la municipalità e la diocesi – creata non senza sussulti proprio da Pio VII staccandola da Pisa meno di dieci anni prima – fanno appendere tappeti o forse bandiere fuori dalle finestre «del Borgo Reale, della via Grande e della piazza d’Arme». La gente, soprattutto il popolino, scende in strada a vederlo: qualcuno si spinge fino oltre i ponti di Stagno per andargli incontro. «Verso le 11,30 – scrive lo studioso livornese – Pio VII, scortato da circa 40 dragoni toscani, giunse alla chiesa nuova dedicata a Santa Lucia».
Il curato Cairoli la fa addobbare in tutta fretta sperando che il pontefice vi faccia una sosta o vi celebri messa. Del resto, detto a puro titolo di curiosità, al ritorno verso Roma dopo la fine della minaccia di Murat, Pio VII farà una sosta tanto singolare quanto comunissima: deve fare pipì e si ferma in un casolare sulla via Cassia non lontano da Poggibonsi. Il padrone di casa metterà un marmo per ricordare che lui ha accolto il papa, sia pure solo per un bisognino: quell’episodio (“Sosta del papa”) darà nome sia al luogo che all’osteria con tanto di bel voto su Tripadvisor. Ma l’attesa del curato va delusa a metà: il papa è anziano, sofferente e sfinito dal viaggio: si limita a benedire dalla carrozza la folla che si è radunata.
Negli annali ottocenteschi, con il nome di Santa Lucia, si trova traccia spesso della pieve antignanese ma non credo sia quella perché la carovana papale arriva da Pisa: ce n’è un’altra come oratorio in zona Popogna e ce n’è una dalle parti di Luciana. In realtà l’indizio più significativo mi porta a pensare che sia la vecchia denominazione della parrocchia di Fiorentina poi rimasta con il nome del solo san Matteo o comunque da quelle parti. Già, perché quella è la strada provinciale per Pisa e poco al di qua di Porta Fiorentina, cioè nella zona del Gigante, al ponte sui Riseccoli (zona Garibaldi), sono lì che lo aspettano le autorità locali, a cominciare dal governatore, conte Francesco Spannocchi Piccolomini, e dal vescovo, monsignor Girolamo Gavi. Si inginocchiano tutti, preti e politici, dinnanzi a lui e gli vorrebbero mettere il baldacchino delle processioni solenni sopra la carrozza. Lui prega di non farne di nulla, semmai si affaccia dal balcone di Palazzo Granducale.
Ma i miei colleghi reporter di allora segnalano una cosa fuori dal consueto: invece che un clima di festa o una accoglienza da sarabanda, c’è un sentore di guai nell’aria. Se il papa scappa vuol dire che si andrà incontro a un periodo di guerre e guai: non è un caso che poche ore più tardi il governatore aprirà un “consiglio di guerra” per prepararsi a qualsiasi eventualità. Esempio: prenderanno dal bagno penale i forzati (cioè i detenuti) per «trascinare i cannoni sulle mura e le munizioni nei forti», precisa Michel.
Feliciano Ducci, esponente elbano nella segreteria del governo locale, racconta una scena che pare presa da “Il marchese del Grillo”, il film in cui Pio VII è interpretato da Paolo Stoppa. Il papa – dice lui – ispira «fortezza d’animo, dolcezza di carattere e santità di costumi»: il suo trono è piccino picciò e in quella sobria scenografia gli alti i dignitari, laici e non, vengono “ammessi” al rito del bacio del piede del pontefice. Il giorno seguente, quest’usanza si ripete prima con preti e figure di spicco, poi anche con i portuali e financo «le donnicciole del volgo», come nota il Nostro con un certo sussiego sdegnato.
Il racconto poi passa in rassegna di minuto in minuto dov’è il papa, chi benedice, chi accompagna, quanti ufficiali «a spada nuda» sono pronti a difenderlo. Non manca una gag: il governatore manda un fidato scudiero a Pisa per recuperare ottimi cavalli da donare al pontefice, ma se li è accaparrati il granduca perché anche lui vuol fuggire.
All’arrivo a Livorno, il cardinale non sta con le mani in mano: invece di bearsi del bagno di folla, va a negoziare con il comandante di un vascello inglese perché porti il papa a Genova, pare di capire però dalla relazione di Pacca che costui dovesse attendere ordini, Michel invece non solo spiega che la nave britannica è semmai diretta a Palermo ma anche che – e qui c’è aria di “giallo” – l’archiatra Tomaso Arelà ha sventato uno strano trabagai che forse avrebbe messo a rischio il pontefice. Fatto sta che Pio VII parte poi per Pisa «nelle ore pomeridiane del 31» (cit. Pacca), l’indomani va verso Viareggio, poi Massa e Sarzana, infine Lerici. È lì che si imbarca su una feluca dei marinai lericini e raggiunge Genova.
Il cardinale s’azzarda a giocare la carta delle storie parallele dei due grandi antagonisti: dice che mentre il papa entra in Genova, Napoleone rientra in Parigi. E qui la sceneggiatura dovrebbe prevedere la preparazione al duello finale come nel duello all’Ok Corral, lo scontro-cult che in dozzine di film, serie tv e libri ha dominato l’immaginario da far west con una sparatoria senza fine (avvenuta realmente nel 1881).
Ma la storia non conosce le semplificazioni delle trame romanzate: Napoleone è a Parigi già il 20 marzo, quando ancora il papa è a Roma. Il senso però c’è, e presto tutto finisce: all’inizio di maggio Murat viene sconfitto nella battaglia di Tolentino (poi sarà fucilato), a metà giugno la disfatta di Waterloo mette definitivamente fuori gioco Napoleone.
Nelle immagini, dall’alto: sotto il titolo e da ultimo, il dipinto di Jacques Louis David dedicato all’incoronazione di Napoleone da parte di Pio VII, la stampa che raffigura Pio VII affacciato al balcone di Palazzo Granducale a Livorno il 29 marzo 1815 (è presente a Palazzo Rosciano, sede dell’Authority di Livorno), Pio VII e il cardinal Pacca, la lapide commemorativa che era presente in Comune e il frontespizio della relazione del cardinale nel 1834
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