Mauro Zucchelli
«Ti dico una cosa, ma non deve uscire di qui per nessun motivo». Monsignor Alberto Ablondi fa con l’indice il perimetro della cucina di casa sua e mi guarda al di sopra degli occhiali. È passato un quarto di secolo, anzi parecchio di più. Già da quasi un quindicennio lui è tornato ad abbracciare nell’Aldilà la sua famiglia di cuochi: in un Aldilà che sembra parecchio “livornese” almeno nel cimitero della Misericordia, a pochi passi dall’Ardenza, se è vero che lì ha fatto portare le tombe dei suoi genitori.
È come se quel giorno lui, prelato fra i più noti in Italia (diplomazia parallela per la Santa Sede, numero due dei vescovi italiani e leader delle organizzazioni bibliche internazionali), “confessasse” questa sua strategia a me, nient’altro che un volto amico. Se mi prendo la briga di rompere il vincolo di riservatezza è per testimoniare che a Livorno abbiamo avuto lo stile di papa Francesco ben prima che Jorge Bergoglio arrivasse in Vaticano «quasi dalla fine del mondo» per diventare papa Francesco.
Bergoglio non è spuntato fuori per un capriccio dello Spirito che ne ha fatto il timoniere della Chiesa in uno dei periodi in cui più forte sembra il rischio di vederla condannata all’irrilevanza. Ablondi è stato, con decenni di anticipo, uno fra i molti che hanno aperto o preparato questa strada: lui per più di un terzo di secolo ha guidato la diocesi di Livorno, prima come ausiliare di monsignor Emilio Guano, poi dal ’70 come vescovo titolare.
Ad accomunarli non è l’appartenenza all’ala più “aperturista” della gerarchia ecclesiastica: non una categoria astratta bensì, come diceva Ablondi con quel suo linguaggio visionario, una «apertura che spalanca le finestre delle nostre parrocchie e basiliche facendo entrare il soffio del rinnovamento del Concilio». Quella fase di cambiamento che aveva visto protagonista proprio Guano, uno dei padri della novità conciliare del Vaticano II: in certo modo, Ablondi si spiega con Guano.
L’ho detto nel post precedente: oggi, 18 dicembre, all’indomani del compleanno di papa Francesco è il 100° anniversario della nascita di Ablondi (e, fra parentesi, lo ripeto, sabato cade per i livornesi il centenario della nascita di un sindaco come Nicola Badaloni).
A colpire il prelato è una statistica in cui le cifre mostrano un problema sociale: la “sua” Livorno risulta una delle realtà in cui, in percentuale, più alta è la frequenza di divorzi e separazioni. Cosa farebbe qualche altro ecclesiastico? Un bel predicozzo che gli metta in pace la coscienza. Ablondi no: non ci sta a vedere tutta questa gente “parcheggiata” in un altrove lontano dalla comunità ecclesiale e, pazienza, dovevate pensarci prima.
Qui bisogna aver conosciuto l’Ablondi vescovo che, già ultrasettantenne, si infila in mezzo a una battaglia di uova fra ragazzi all’Attias per andarli a invitare a prender parte al sinodo dei giovani. O quello che alle soglie degli 80 anni balla come può nella chiesa dei Salesiani in mezzo ai suoi ragazzi che, nell’ultimo giorno da vescovo, lo salutano sulle note di “50 special” dei Lunapop. O quello che, di fronte al furto dei gioielli della Madonna di Montenero, stabilisce che l’elemosina diocesana di Quaresima non andrà per ricomprare i preziosi da appiccicare sull’icona («se la Madonna voleva tenersi i gioielli sapeva come fare») bensì per pagare la solidarietà con i malati di Aids, con le famiglie di povericristi, con gli immigrati.
Fa esattamente quel che fa papa Francesco: invece che impancarsi in lunghissime disquisizioni dottrinarie con i tradizionalisti che amano lustrare le loro belle nostalgie, sposta la questione sul piano pastorale. Da tradurre così: di filosofia e di teologia parleremo poi, intanto c’è da dare una risposta che aiuti i credenti a non sentirsi come abbandonati. Ablondi ha nel curriculum anche una laurea in giurisprudenza (oltre a quelle in lettere a indirizzo archeologico e in filosofia), insieme ad altri prova a mettere in fila un’idea. La via d’uscita non è rendere il matrimonio solo un atto burocratico che vale nulla: ci sono voluti secoli perché l’amore coniugale non fosse roba da serie C rispetto al clero che si distingue perché non prende moglie. Il rinnovamento conciliare dice che l’amore fra uomo e donna non è un peccato da ingabbiare ma l’emblema di Dio e il suo popolo uniti come sposi. Possiamo immaginare come soluzione l’idea di farne una scelta revocabile?
La risposta sta nello spostare sul piano pastorale il problema. Il primo segnale – questa l’ipotesi attorno alla quale lavorava il gruppo di cui si sentiva parte Ablondi – viene individuato nell’utilizzo di ingranaggi già esistenti come l’annullamento tramite la Sacra Rota. Non si inventava nulla: era uno strumento del tutto “normale” già allora nella Chiesa, solo che era riservato agli ultraricchi che potevano permettersi i costi. Che fare? Eliminare l’ingiustizia evidente (solo i ricchissimi possono): adesso, per quanto ne so, l’accesso alla Sacra Rota costa meno e ha una procedura meno ingarbugliata. Non sarà ila soluzione di tutto ma è un segnale di attenzione: nei confronti delle persone Lgbt o in altre trincee calde della morale cattolica (per troppo tempo ridotta alla dimensione del “sotto le lenzuola” anziché alla dimensione della giustizia sociale e della pace), non è forse la linea che sta adottando papa Bergoglio?
È uno stile, quasi una modalità espressiva che mette in gioco sé stessi e le proprie “insegne”: come quella volta che, mi aveva raccontato, in missione in Vietnam per l’Apostolato Biblico aveva dovuto correre nella città vicina viaggiando su una moto guidata da una suora; come quell’estate in cui aveva accompagnato un gruppo di ragazzi e ragazze della comitiva diocesana livornese alla “Giornata mondiale della gioventù” di fine anni ’90 e da lì aveva dettato a braccio per la prima pagina del quotidiano livornese “Il Tirreno” i propri reportage. Ne svelo un’altra che sappiamo solo io e Ablondi, nemmeno il direttore del giornale: l’ultimo giorno lui è sfinito, a 73 anni sente il peso degli acciacchi. Prova a dettare via telefono il suo pezzo ma proprio non ce la fa. Dice: queste sono le idee che vanno messe e questo è quel che ho vissuto qui, la forma in italiano metticela tu. L’ho fatto, provando a uscire dai miei tic di scrittura e adottando quel periodare visionario di Ablondi.
Il rapporto con i portuali la dice lunga, e stiamo parlando di un periodo in cui l’accusa di aver fatto fare la prima comunione alla figlia era stata la “macchia” che aveva impallinato l’ascesa di un potenziale leader. L’avevano accolto la prima volta con il capo dei portuali che l’aveva presentato così: «Occhio ragazzi, è arrivato lo sceriffo». Anni più tardi, quegli stessi portuali l’hanno sentito vicino nella durissima vertenza in porto: chiamando anche di notte all’assemblea per evitare che tutto finisse malamente. A distanza di tanti anni, quel leader “rosso” ha voluto sulla propria tomba solo l’ancorotto da portuale e il crocifisso; a distanza di tanti anni i lavoratori del Cantiere, roccaforte della tradizione operaia doc, hanno aperto a Ablondi le porte della mensa perché vi celebrasse la messa.
Mettere l’accento sugli aspetti pastorali consente di non intestardirsi sull’astrazione delle questioni di principio per rimarcare solo le differenze: è il valore del dialogo, così intendeva il vescovo Ablondi la dinamica di crescita della relazione fra persone. Da tradurre così: avere ben chiari i valori ma senza brandirli come una clava. Non è forse vero che il suo stemma episcopale è contrassegnato dal motto “Veritas in Charitate”? La diversità e la pluralità non solo accettate bensì incarnate come valore e arricchimento reciproco.
Ma c’è un aspetto che vede Ablondi aver spostato più in là nel futuro i paletti di quel che significa “essere Chiesa”: la collegialità della guida della comunità dei credenti. Nel gergo dei preti: la sinodalità. La spiegherei così: ridurre il verticismo che fa della Chiesa l’ultima monarchia assolutista, con il capo del tutto sciolto da ogni vincolo verso la sua “squadra”, per accentuare una gestione della Chiesa come erede della “comunità degli apostoli” guidata da Pietro, uomo come gli altri e testone quanto gli altri. Nel vangelo di Matteo Gesù Cristo lo ripete per due volte a distanza di due capitoli, una volta riferendosi a Pietro e l’altra all’insieme della comunità: «Tutto quel che voi avrete proibito sulla terra sarà proibito anche in cielo; e tutto quel che voi permetterete sulla terra sarà permesso anche in cielo» (Bibbia interconfessionale). Leggiamo bene: è il Cielo che si “adegua” a quel che si fa in Terra, un ribaltamento logico mica da poco.
Cosa c’entra Ablondi? C’entra perché ha spinto la Chiesa di Livorno a farsi laboratorio di trasformazione del modo d’essere della comunità dei credenti: Livorno è stata una realtà anticipatrice nel convocare il sinodo, l’ha fatto discutendo a lungo in ogni parrocchia e poi nel “parlamentino” insediato dentro la chiesa dei Salesiani. Era l’inizio degli anni ’80 e a quel tempo le esperienze di questo tipo si contavano sulle dita di mezza mano in tutta Italia. Anche se, detto per inciso, Livorno aveva alle spalle i due sinodi convocati – ma prima che il Concilio Vaticano II dispiegasse la sua libecciata di rinnovamento – dal vescovo Giovanni Piccioni nel ’27 e una decina d’anni più tardi.
Non è tutto: sotto la guida di Ablondi la Chiesa livornese vive il sinodo generale concluso nel 1984 e poi, una dozzina di anni dopo, quello specificatamente dedicato ai giovani. Di più: attraverso la figura di don Vincenzo Savio, ne exporta germogli altrove: nella Firenze di La Pira, Milani e Balducci così come a Belluno. E adesso, a distanza di tanti anni, è papa Francesco ad aver convocato al sinodo la Chiesa tutta.
Ho detto però che Ablondi è andato più in là: sì, perché Ablondi ha lasciato parlare i sinodi, non li ha sovrastati con la propria leadership, papa Francesco si ritrova a fare i conti con tempi in cui la sparizione dei “corpi intermedi” e la personalizzazione della funzione di guida, oltre all’ostilità di parte della comunità ecclesiale (inclusa la nomenklatura vaticana), riduce il protagonismo comunitario e lascia spesso intatta la “religione del capo”.
Per questo motivo c’è un’altra sottolineatura da fare: quasi “simmetricamente” al dinamismo dell’ apertura verso l’esterno, ha messo sulla rampa di lancio un bisogno di apertura verso l’interno. E cos’altro è se non la concretizzazione del dinamismo del Concilio Vaticano II? Di quale “soffio dello Spirito” di rinnovamento avremmo potuto parlare, se avessimo preteso di ingabbiarlo nelle formulazioni dei documenti conciliari una volta per tutte? È da qui che parte la stagione del sinodo, anzi della sinodalità: ora, a cominciare da quello indetto da papa Francesco è una modalità accettata dalla Chiesa, quando è arrivato al culmine il sinodo nel 1984 la diocesi di Livorno è stata una delle prime esperienze apripista in Italia.
Quel sinodo non nasce come un parto della mente di Ablondi, come le Costituzioni “octroyée” concesse dall’alto dai sovrani ottocenteschi più o meno assoluti: quel sinodo è figlio di quella voglia di partecipazione che ha attraversato il nostro Paese a fine anni ’70. In concreto: era normale che a una seduta del consiglio pastorale diocesano assistesse un pubblico di 100-200 persone. È in quel periodo che dal basso, anche dalla spinta dei preti giovani – come, solo per citarne alcuni, don Paolo Razzauti, don Giuseppe Ferrari, don Luciano Musi, don Antonio Marini – si facesse pressante il bisogno di sentire una Chiesa più collegiale, più appassionata e meno gerarchica. È in una di queste riunioni che, Ablondi presente, si chiede esplicitamente al vescovo di immaginare un percorso sinodale: lui accetta e nel 1980 si mette in moto la macchina organizzativa con una inchiesta capillare che tracci l’identikit sociologico e religioso della diocesi.
Il vescovo Ablondi non ha vissuto il tempo in cui il mappamondo si è spaccato, senza che sapessimo come ricomporlo, fra i differenti fondamentalismi che si richiamano alla religione: al contrario, ha avuto esperienza soprattutto del cosmo diviso in due blocchi contrapposti (la “guerra fredda”) ma sempre con l’ambizione, il traguardo e la speranza di arrivare a “ricreare” il Creato per renderlo unico. Cioè pacifico, giusto e sostenibile. E non ha vissuto nemmeno quello in cui la nostra vita quotidiana, senza che ne avessi una qualche consapevolezza, è stata travolta dalle potenzialità enormi (e dalle minacce connesse) dell’avere nello smartphone un mini-computer che ci segue 24 ore su 24. Viene da misurare tutta la distanza che poteva avere lui, amante della musica classica, rispetto ai tanti giovani, assai più legati all’alfabeto di cantautori, pop e rock. Verissimo, eppure anche nell’ultimissima parte della vita aveva saputo “inventarsi” strumenti di catechesi innovativa come i “fogli volanti”, quasi samizdat dei dissidenti sovietici, massimo quattro pagine affidate al passaparola o al “foglietto-crossing”. Da lasciare alla bottega all’angolo, sulle panche della chiesa, sul tavolo del circolino, nella buca delle lettere di qualche amico.
Li hanno raccolti e pubblicati da Morcelliana nelle settimane della sua fine: “A passo d’uomo verso il divino”, il titolo (con una scultura di Alberto Giacometti in copertina che ben ne riassume l’essenzialità). aveva intuito che non è più tempo di lunghe argomentazioni, meglio usare la suggestione che inneschi la meditazione e affidarsi con fiducia a quel che questo mette in moto in ciascuno.
Del resto, al tramonto della vita, ormai la malattia lo teneva su una sedia a rotelle (accudito da un badante musulmano, assai rispettoso di quell’”uomo di Dio”, e anche questo è un segno-simbolo): non ce la faceva più a scrivere i “fogli volanti”. Si è arreso? No, si è affidato alle foglie di magnolia che, secche, trovava ne giardino del seminario. Siamo noi quelle foglie, così esposte al vento e anch’esse coinvolte dal “piano di Dio”. Siamo noi quelle foglie, sulle quali scriveva brevi parole sempre più difficili da leggere: noi e le foglie, legati da un destino. Direbbe Ungaretti: «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie». Il vescovo Alberto non lo diceva (ormai a fatica) con la disperazione di quel poeta ermetico che parlava di soldati in guerra, lo diceva affidandosi con fiducia al soffio della brezza di Dio che lo/ci avrebbe portato dove neanche potevamo immaginare.
(Questo pezzo è in realtà il mix di due articoli che ho scritto: l’uno per il giornale della Società della Cremazione e l’altro per un ricordo collettivo di Ablondi che lo studioso Riccardo Burigana ha coordinato).
DALL’ ARCHIVIO DEL BLOG: IL LINK A UN’ALTRA STORIA DA RICORDARE
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