Storia (segreta) di Mario Canessa: l’anti-eroe che salvò da Auschwitz tanti ebrei

Per quasi due terzi di mezzo secolo ha tenuto nascosta la sua storia di salvatore (come aveva fatto Gino Bartali). L’ho raccontato sul Tirreno: lui non voleva assolutamente che lo facessi, poi siamo diventati amici. È l’80° anniversario della notte di luna in cui portò un bambino in Svizzera passando dai sentieri sui monti: non dimentichiamocelo

di Mauro Zucchelli

Quell’oggi di ottant’anni fa è una notte di luna piena: fa un freddo diaccio marmato lassù sulle Alpi fra l ‘Italia e la Svizzera, non ti riparerebbero dalla tramontana nemmeno un moncler e gli stivali col pelo rinforzato, figuriamoci farsela con le scarpine rimediate in extremis e un cappottaccio prestato. A maggior ragione se non sei un fegataccio di contrabbandiere ma solo un bambino di otto anni e, in quella traversata della foresta sotto la neve, ti accompagna solo un tipo che non hai mai visto.

«L’uomo e il bambino si preser per mano / andavano insieme incontro alla notte». O forse incontro alla libertà, alla salvezza: si potrebbe parafrasare meglio così la canzone di Francesco Guccini. Il piccolo è Ciro Debenedetti ma tutti lo chiamano Lino, l’uomo è un tale che dovrebbe indossare una divisa ma ora no: è un poliziotto, si chiama Mario Canessa, ha una bella parlata toscana e a dire il vero il suo mestiere dovrebbe essere dare la caccia a quelli che stanno facendo quel che sta combinando lui. Far sparire verso la Svizzera gli ebrei come Ciro, i perseguitati antifascisti, i prigionieri di guerra. Quella notte insieme al bambino passa il confine anche la nonna: quattro ossi da infilare in una gerla – una cesta da mettersi in spalla – che forse un contrabbandiere porta di là.

Il confine si capisce subito dov’è? Di qua, in Italia, è tutto buio per paura dei bombardamenti; di là, dagli svizzeri, non c’è la guerra e si vedono le luci: anzi, illuminano tutto per dire ai bombardieri che lì non devono sganciare le bombe.

Sembra quasi di sentirli. «Zitto, fra un po’ siamo arrivati». «Ma io ho sonno». «Resisti, dobbiamo fare ancora un po’ di strada». «Ma il bosco è buio: possiamo cantare la canzone degli alpini?». «No, non possiamo: se ci sentono: kaputt. Però, lo sai che sei un bambino coraggioso? Quanti anni hai?». «Otto, otto e un pezzetto». «Quando avevo io otto anni me ne andavo con mio fratello nei boschi intorno a casa mia, a Volterra». «Dov’è?» «E come faccio a spiegartelo? Lontano, ma no: quasi, diciamo abbastanza vicino».

Bisognerebbe immaginarsela davvero, la scena: serve per capire cos’era quella stramaledetta guerra in cui il Duce s’era infilato ben sapendo che il Paese non era equipaggiato ma, mettendosi all’ombra di quel tal Hitler che lo venerava come un esempio, guadagnarsi l’ingresso fra le Grandi Potenze trionfatrici: all’inizio dell’estate 1940 l’entrata in guerra, nell’autunno successivo prova ad azzannare quei povericristi di Atene cercandosi un nemico talmente scalcagnato da poterci fare lo sbruffone («spezzeremo le reni alla Grecia», e prenderemo una batosta militare addirittura lì). Serve a capire tutte le guerre: Ciro è ucraino, Ciro è israeliano ma anche palestinese. Ciro è del Sud Sudan, del Congo, dello Yemen, è curdo, siriano o afghano. La terza guerra mondiale combattuta per pezzi.

Se parlo di quel microscopico episodio è per ricordarlo nell’80° anniversario: una storia infinitesimale nel gran caos della guerra. Soltanto Mario Canessa l’ha ripetuta tante, tantissime volte. Era uno studente di giurisprudenza all’Università Cattolica ed era poliziotto nella caserma di frontiera di Tirano, il borgo della Valtellina che sta proprio lì dove la catena delle Alpi lascia un mezzo varco per passare in Svizzera. Lì dove tutti, anche da Milano, volevano infilarsi per passare in quelle settimane dopo l’armistizio del settembre ’43 che aveva scatenato i nazisti trasformandoli in occupanti e aveva reinventato i fascisti in “repubblichini”.

Di là ad accoglierlo c’è una guardia svizzera amica di Mario, prende in casa il piccolo Ciro e lo tratta come un figliolo: gli timbra con la data un foglio con la calligrafia di Ciro, sarà il messaggio che confermerà ai genitori – detenuti in quanto ebrei – che il figlio è in salvo. Affronteranno con un peso in meno sul cuore il calvario che li porterà a Auschwitz.

Proprio perché Ciro passa di là indenne, quel fatto non finisce su nessun giornale. Quel giorno la stampa racconta (malvolentieri) che dalle parti di Lecco un tram strapieno modello Calcutta slitta e si ribalta, una dozzina di vittime e mezzo ospedale di feriti mentre a Como una agiata famiglia borghese se la prende con l’ex colf e la accusa di aver fatto sparire tutta la preziosissima posateria d’argento. Quel giorno siamo nel bel mezzo della campagna d’Italia: nello scontro fra alleati e nazisti sul terreno del Bel Paese, dopo l’insurrezione delle “quattro giornate” di Napoli che rende protagonista la ribellione degli italiani, l’11 dicembre ’43 è il debutto dei reparti dell’esercito italiano che a San Pietro Infine (Caserta) per la prima volta combatte al fianco degli angloamericani.

Lo racconta malvolentieri perché i giornali si incaponiscono a dedicare titoli e colonne a stupidaggini come l’onomastico della regina e relativi auguri di tutta la nomenklatura del fascio oppure agli elzeviri in cui qualche cantore si abbandona a esercizi di stile su qualsiasi bischerata, mancasse casomai anche la sottolineatura dei “doveri dell’ora” con tutto il quaquaqua della propaganda.

C’è da chiedersi almeno un paio di cose, riguardano entrambe Mario Canessa. L’una: quando sei di là al sicuro in Svizzera senza guerra né nazifascisti né bombardamenti, cos’è che ti fa tornare al tuo posto in Italia e ricominciare il bluff per riportare qualcun altro oltre la frontiera? L’altra: non c’è l’informatizzazione dei nomi e cognomi, dunque i controlli si basano sulla memoria dell’appuntato o del brigadiere, ma capita che i fascisti vadano a dire a qualche tuo familiare che se li aiuti a beccare i partigiani, dalla Germania faranno tornare tuo fratello prigioniero e per te ci sarà una bella ricompensa. Chi te lo fa fare di non pensare al tornaconto personale (o anche solo a tuo fratello prigioniero), e invece continuare a rischiare la fucilazione per salvare tizi che neanche conosci?

Non è finita qui. Mario non era l’unico: l’ha fatto anche Gino Bartali, fingeva di allenarsi e invece nascoste dentro il telaio della bici aveva i documenti falsi per far fuggire gli ebrei attraverso una rete di conventi. Lui faceva la spola da un monastero all’altro come se dovesse allenarsi per il Giro d’Italia.

Come Gino Bartali, anche Mario ha deciso di tirar giù la saracinesca e non raccontarlo a nessuno: divieto assoluto, nemmeno la moglie lo sapeva. Perché? Gliel’ho chiesto quando sono andato a bussare a casa sua e lui mi ha mandato a ramengo. «Non voglio parlare con nessuno. Meno che mai un giornalista, figuriamoci. Ma chi le ha dato il mio indirizzo? Sull’elenco del telefono, lo so che sono sull’elenco del telefono: non sono mica un ricercato. Ha capito? Non mi cerchi più, non la voglio più vedere: vada dal sindaco, dal vescovo, da un calciatore. L’intervista la faccia a loro, io non ho niente da raccontare. Non l’ho mai raccontato nemmeno a mia moglie».

C’è voluto del bello e del buono, quante volte ho scampanellato all’uscio di casa sua in via Paganucci, un tiro di sasso da Villa Fabbricotti, a Livorno. Poi me l’ha detto il perché. Sta tutto in un episodio: dopo la guerra era andato a trovare una famiglia che aveva salvato, era in pensiero e voleva sapere se ce l’avevano fatta. Cosa aveva in testa chi rischiava la pelle per aiutare salvare qualcuno dalle mani dei nazisti, me l’ha spiegato un partigiano un po’ sarto un po’ postino: Giuseppe Fusario. L’aveva fatto anche lui: il fucile in mano non si è fermato a Livorno, bisognava pensare anche ai “fratelli del Nord” e portare la liberazione anche a loro.

Quelli al di là della porta e Mario Canessa  poliziotto anti-eroe si conoscevano a malapena ma loro avevano messo la loro vita nelle sue mani e lui l’aveva maneggiata come la cosa più preziosa al mondo rischiando la fucilazione per loro: era più di un legame di sangue, no? La risposta è gelida: «Abbiamo già dato, non vogliamo più esser disturbati». Eravamo già tornati “normali”, cioè incazzati e rancorosi.

Mario aveva capito una cosa, prima ancora che si incrinasse il patto politico fra le forze della Resistenza: era finita in pezzi quel senso di fraternità nuova che aveva sognato. Quell’idea per cui, insieme a una complice-infermiera, improvvisavi false scorte arcigne a pericolosi malati tubercolotici così da poterli spostare di paese in paese facendoli viaggiare in treno in entrata o in uscita dal vicino sanatorio valtellinese. E anche la rete di amicizie fra militari monarchici, sorelle commercianti, un negozio di pasticceria, l’avvocato socialista e i colleghi poliziotti anch’essi antifascisti: un puzzle di soggettività che qualche tempo più tardi si sarebbero volentieri prese a testate.

Come per Bartali, la cosa è emersa solo dopo più di mezzo secolo. Giocando a scacchi con un amico ebreo Canessa s’era lasciato sfuggire qualcosa, ma proprio un niente. Bisogna sapere che per gli israeliti è fondamentale conservare i nomi di chi, non ebreo, ha salvato la vita anche di un solo ebreo: il nome è l’identità e a Gerusalemme (Yad Vashem) sono custoditi i nomi di questi “giusti fra le nazioni”. Si mette in moto Guido Guastalla, e anche il nome di Mario Canessa viene aggiunto a quel memoriale.

Da dove gli s’era ficcata nella testa di Mario Canessa questa voglia di libertà? Me l’ha detto lui, quando è passato da personaggio di cronaca a amico (io tante volte a casa sua per un caffè o un liquorino sulla poltrona con i centrini d’una volta; lui a casa mia regalandomi mappe geografiche e un cavallo di alabastro…). Incredibile a dirsi, il motivo sono i giornali mezzo accartocciati che qualcuno lasciava in treno nell’andirivieni fra il suo posto di frontiera e quello degli svizzeri a Campocologno. Proprio i giornali ridotti in uno stato che sembravano buoni solo per incartarci i buzzi dei pesci. «Che differenza con i nostri quotidiani: da noi solo propaganda, da loro no. Era surreale: qui in Italia sapevamo com’era grama la vita, con le tessere annonarie per razionare il cibo e le file da fare per qualunque cosa, eppure sul giornale non c’era altro che il Duce di qua e il Duce di là. Noi non avevamo le scarpe per l’inverno, le suole chissà di cos’erano fatte che si spaccavano sempre: eppure il re andava in visita, riceveva gli auguri «per il genetliaco» (forse “compleanno” sembrava troppo dozzinale…). Sui giornali svizzeri invece trovavo la vita vera: le critiche, le lettere di chi si lamenta perché la farina costa troppo cara, la protesta di un paesino rimasti isolato dalla neve. Insomma, in quelle pagine i problemi non li rimpiattavano sotto il tappetto: si sentiva aria di libertà».

Mario lo accompagnerò nella chiesa della Madonna a parlare insieme al vescovo Ablondi come vecchi amici, lo accompagnerò in sinagoga per il “sefer torà” che aveva fatto trascrivere lui, lo accompagnerò dal sindaco Alessandro Cosimi. Di fronte a lui, ricevendo la massima onorificenza locale, dirà con le lacrime agli occhi quel che mi ha sempre ripetuto: «Ho fatto soltanto il mio dovere». Come quella volta lassù col piccolo Ciro. Ciro l’ho incontrato ai funerali di Mario per quell’ultimo abbraccio al suo salvatore. La cosa più bella me l’ha detta sua moglie Maria: «Ringrazio Mario perché portando in salvo quel bambino ha reso possibile che io lo incontrassi anni più tardi e ci innamorassimo: senza Mario non ci sarebbe stato il nostro amore».

DALL’ ARCHIVIO

Nelle foto, dall’alto: Mario Canessa in primissimo piano; il piccolo Ciro Debenedetti al posto di frontiera svizzero; Canessa (a sinistra) insieme a un collega dalla polizia di frontiera elvetica; Canessa insieme a monsignor Alberto Ablondi (la seconda e la terza foto sono tratte dal volume che ho scritto per l’Anpi e pubblicato dal Comune di Livorno)

2 risposte a “Storia (segreta) di Mario Canessa: l’anti-eroe che salvò da Auschwitz tanti ebrei”

  1. Grazie per questa preziosa segnalazione. È in voga (ma senza praticarla) l’idea di una memoria condivisa. Ok: nel senso che un po’ di miti fondativi sono necessari per non essere solo macchine consumatrici con tubo digerente. Dovessi dire la mia, preferisco una memoria plurale. Moltiplicativa, diciamo così. (mz)

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  2. Avatar Gianfranco Balestri
    Gianfranco Balestri

    Quante belle storie ci racconta Zucchelli,!!!!

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