Il prete filo-partigiani benedì la salma di Galeazzo Ciano che il suocero-Duce aveva fatto fucilare

Da un giornale parrocchiale emerge la testimonianza di uno stretto collaboratore di don Roberto Angeli: «Fu chiamato a celebrare messa al cimitero della Purificazione prima dell’alba, lì scopri che nella bara c’era Galeazzo Ciano. Ma non ci sono altri riscontri in diari e ricostruzioni storiche: è un mistero (con una ipotesi di soluzione se…)

di Mauro Zucchelli

Era l’alba di un martedì, l’oggi di ottant’anni fa esatti esatti: dopo una notte di luna piena, là dov’era il poligono di tiro di forte San Procolo a Verona va in scena l’ultimo (davvero ultimo?) atto del drammone di casa Mussolini-Ciano con la fucilazione di Galeazzo, non solo ministrissimo e potentissimo ma anche marito di Edda, figlia del Duce.

In un tourbillon di fraintendimenti e colpi di scena: incrociando diari, dichiarazioni e archivi sembra che Galeazzo Ciano si sia accodato all’ordine del giorno di Grandi per assestare una botta allo strapotere del suocero e l’abbia fatto senza rendersi conto né che anche un suo mezzo sì l’avrebbe fatto diventare praticamente la guida di questa fronda anti-Benito né che il re tramite Aquarone stava brigando per salvare sé stesso scaricando Mussolini. Con tutto il fumettone che ben si presterebbe a film: in un ginepraio di parentele fra affetto e odio, ammirazione e sudditanza, si racconta che Galeazzo abbia chiesto a Edda di sparargli o avvelenarlo perché non sapeva come uscirne. Ci riprova: si fa dare una pastiglia di veleno, lo prende ma non succede nulla perché all’ultimo istante qualcuno ha cambiato la pillola.

Siamo in un pezzo di Verona che ora sta fra il tiro a segno nazionale e una “escape room”, fra Pronto Pizza Take Away e Bigger l’Hamburgheria nel festival del “mangificio” che contraddistingue ogni città e ogni periferia. Qui davanti hanno messo in fila i cinque che avevano affossato Mussolini nella notte del Gran Consiglio: a ciascuno la sua sedia, seduti spalle al plotone di esecuzione, il quarto da sinistra è Ciano. Il plotone d’esecuzione l’ha messo insieme il capo della “Disperata”, milizia di ultra fascistissimi che rimproverano al Duce di avere il cuore tenero e, siccome manganello e olio di ricino non bastano più, tanto meglio. Via tutti questi signorini come Ciano che frequentano i salotti, ci vogliono le maniere forti e casomai fortissime.

Semplicemente ci si stava inventando un “fascismo senza Mussolini” con una babele di regolamenti di conti quando gli equilibri traballano e le geometrie del potere fascista si fanno variabili e incerte, soprattutto per tutto il sottobosco di arraffoni (ai quali lo storico Mimmo Franzinelli ha dedicato un interessante libro). L’ultima abbuffata, la più clamorosa, con le leggi razziali: ora c’è chi si batte il petto dicendo che quella è la cosa brutta fatta dal regime, che ha compiuto soprusi ai danni degli ebrei (ma, si dice, probabilmente per lisciare il pelo al potente alleato Hitler). In realtà, se già la discriminazione è odiosa, la ragione vera dietro le leggi anti-ebraiche è la spoliazione di un ceto borghese di religione israelitica che o cerca prestanome ai quali intestare provvisoriamente i beni o sa che presto arriverà la spoliazione per decreto. E secondo voi, a parte qualche meritoria anima buona, gli intestatari fasulli improvvisamente arricchiti e divenuti industriali, finanzieri, grandi commercianti o facoltosi immobiliaristi, davvero facevano il tifo perché gli ebrei tornassero vivi a riprenderseli? Al contrario, chissà che qualcuno anziché dai lager nazisti non sia stato fatto fuori dai prestanome “brava gente”…

Per un capriccio del destino, Ciano finisce i suoi giorni in una fortezza che, oltre a esser rimasta per decenni un angolo di degrado e incuria piantato nel fianco della città di Giulietta e Romeo, ha nel dna architettonico qualcosa di sinistro: l’ha costruita il generale Radetzki, emblema degli oppressori austriaci e nemico del nostro Risorgimento; l’hanno utilizzata i repubblichini per ammazzare Ciano, troppo ingombrante per il loro dante causa Hitler, che muove a bacchetta tanto loro che quel Mussolini ormai ridotto a ventriloquo in nome e per conto dei tedeschi. A cominciare proprio dall’eliminazione di Galeazzo Ciano: benché proprio Galeazzo avesse infilzato il Duce nella notte del Gran Consiglio che l’aveva “sfiduciato”, Mussolini probabilmente avrebbe firmato la grazia. Avrebbe forse ascoltato la figlia prediletta Edda, che le ha tentate di tutte per salvare il marito, salvo poi sbattere contro la “diga” di factotum e sgherri che le impedì di insistere con il padre.

Bisognerebbe tornare a sfogliare il giornale della famiglia Ciano, “il Telegrafo”, per accorgersi cos’è il “fascismo senza Mussolini” in quelle settimane del ’43 fra estate e autunno. Dopo anni e anni di articoli sorvegliatissimi in cui ci si apriva la cronaca con le meraviglie di quel che pensa il Duce o gli auguri di buon compleanno alla regina; dopo che le cronache di guerra puntavano su vittorie solo tedesche in qualche landa remota e mai su successi militari italiani; dopo che i reportage sui «valorosi nostri combattenti» risalivano di settimana in settimana la penisola verso nord, ecco dopo tutto questo ci si ritrova con pezzi taglienti sugli arricchimenti dei gerarchi e sulle indagini sulla corruzione di loschi figuri della nomenklatura fascista.

Ma se adesso torniamo su questa pagina della nostra storia – italiana sì, ma anche livornesissima perché di qui sono i Ciano e qui sono sepolti – è per indicare che in un numero di oltre quarant’anni fa di “Noi insieme”, periodico della parrocchia di Sant’Agostino, si racconta una incredibile vicenda. Legata proprio alla morte di Galeazzo. «Una seria del gennaio ’44 don Roberto ricevette da persone sue parrocchiane l’invito a trovarsi l’indomani mattina alle ore sei presso il cimitero della Purificazione per celebrare una messa». E fin qui niente di strano: se non per via di chi è il prete e chi il morto del funerale. Il prete è don Roberto Angeli, figura leggendaria dell’antifascismo cattolico, il funerale è quello di Galeazzo Ciano, «fucilato due giorni prima», che la famiglia «aveva chiesto di seppellire nella propria città». A raccontarlo è Aroldo Figara, che di don Angeli è stato stretto collaboratore: talmente stretto che doveva fare da guida al sottotenente Dante Lenci, giovane allievo ufficiale della Regia Marina appena uscito dall’Accademia navale, che per conto dell’intelligence alleata sbarca nei giorni di quasi Natale ’43 al di là della linea del fronte, in territorio controllato dai nazisti, alla Buca dei Corvi di Quercianella. Obiettivo: portare una radiotrasmittente a Seravezza a ridosso delle linee nemiche.

«Quando si raccontò il fatto – riporta Figara – ci disse anche del dispiacere per non aver potuto rivolgere una parola di cordoglio cristiano ai familiari presenti perché impedito e tenuto distante dalle guardie fasciste». Sembra di poter ricostruire che è il 13 o il 14 gennaio ’44, neanche quattro mesi più tardi don Angeli sarà arrestato dalla Gestapo a Montenero e portato a Villa Triste a Firenze, al civico 67 di via Bolognese: un palazzaccio che era utilizzato non solo dalla polizia politica tedesca (Sicherheitsdienst) ma anche dagli aguzzini della milizia repubblichina capitanata da tal Mario Carità che si sono fatti una fama sinistra per la ferocia repressiva.

Questa del prete antifascista chiamato a fare il funerale a uno degli onnipotenti del regime, però, è un giallo. Oltre alla testimonianza di Aroldo Figara, scritta da lui stesso e in un contesto che non spinge a fare affermazioni avventate, non ho trovato altre conferme. Neanche dallo storico Gianluca Della Maggiore, un passato da collaboratore dell’Istituto storico della Resistenza e della Società Contemporanea  e un presente da docente all’Università telematica pubblica Nettuno: ne parla lui in un volume dedicato a don Angeli pubblicato dalla casa editrice labronica Editasca.

Non è tutto: non mi sembra di poter trovare sponde nei ricordi di Fabrizio Ciano, figlio di Galeazzo (“Quando il nonno fece fucilare papà”) e nemmeno nel racconto che Edda Ciano Mussolini, figlia del Duce, fa di quei frangenti (“La mia vita”). La stessa cosa dicasi per l’attenzione che Giordano Bruno Guerri ha dedicato a “Un amore fascista”, quello cioè fra “Benito, Edda e Galeazzo”. Nulla mi pare di poter leggere magari di rinterzo nelle pagine dedicate al resto dell’esistenza di Edda Ciano, quelle del bel libro di Marcello Sorgi in cui si narra come Edda si fosse legata nel confino a Lipari, dopo il ’45, all’ “inconfessabile passione” per un dirigente comunista del luogo. Non regge più di tanto neppure l’idea di una Edda ribelle che va a cercare il prete più antifascista pur di dare uno schiaffo al regime e a tutti quei maledetti neri che gli hanno ammazzato il marito: sì, vive una love story con un comunista e ha sempre avuto un carattere decisamente controcorrente (dice di aver sempre avversato l’attitudine anti-tedesca del marito), ma risulta che lei si sia sempre dichiarata testardamente fascistissima.

La salma di Galeazzo viene tumulata al cimitero dell’arciconfraternita della Purificazione: i membri della famiglia Ciano sono collocati in una galleria qualsiasi, senza dunque una cappella a sé, e si distinguono a malapena dalle altre tombe (i loculi sono uniti da una croce in marmo verde). In un gruppo di quattro, Costanzo Ciano e la moglie Carolina insieme al figlio Galeazzo e alla figlia Maria; nel loculo di Galeazzo è associata anche il ricordo di sua figlia Raimona detta Dindina, morta nel ’98 a 65 anni. A distanza di pochi metri, un’altra coppia di lapidi dal disegno analogo: com’è costume dell’epoca, Edda si qualifica con il cognome del marito e perciò è “Edda Ciano nata Mussolini” e accanto ha il figlio Marzio (soprannominato Mowgli), certificato di nascita datato ’37 e anch’egli morto giovane neanche quarantenne.

L’intelligenza artificiale di san Google è ancora abbastanza scema e prende spesso cantonate se gli si chiede dov’è sepolto il Nostro: spesso fa riferimento al mausoleo che il regime aveva iniziato a costruire sulla collina di Montenero con quello che per il livornesi è da sempre il “monumento a Ciano”. Un monumento che non c’è: ne esiste solo il basamento ed è in rovina. Praticamente l’intero fronte della collina, roba di chilometri, sarebbe stato trasformato in qualcosa che neanche la prosopopea del trionfalismo architettonico fascista avrebbe potuto fare immaginare. Ora pezzi di quel monumento sono rimasti in una cava in Sardegna, altri in Versilia. Chissà se la tumulazione al cimitero di Barriera Roma, in forma minimal anziché smargiassa, è stata un obbligo dettato dalle circostanze (Livorno era controllata dalle truppe hitleriane e si sa quanto fossero gelidi, se non ostili, i rapporti fra Galeazzo e la Germania) in  attesa magari del mausoleo o se invece fosse la famiglia di Galeazzo a voler dimostrare così il proprio risentimento nei confronti dei repubblichini di Salò che lo avevano fucilato.

Aggiungo una sottolineatura che devo proprio a Della Maggiore: don Angeli potrebbe essersi ritrovato a essere uno dei pochi preti presenti in una Livorno che, nel gennaio ’44, era in gran parte fuggita via. Nel bel volume “Spaesamenti” di Istoreco, insieme ad altri studiosi spiega gli effetti del gigantesco sfollamento di abitanti («secondo alcune fonti alleate
solo 20mila dei circa 130mila abitanti dell’anteguerra si trovavano in
città al momento dell’arrivo delle truppe liberatrici il 19 luglio 1944»). Lo storico livornese, manco a farlo apposta, cita una relazione del ’51 messa nero su bianco da don Angeli per raccontare quei mesi: «Su 36 Chiese parrocchiali ben 22 risultavano distrutte o inservibili […] Il tessuto organizzativo e sociale dell’anteguerra non era stato solo depauperato e diradato come in altre diocesi: era stato completamente distrutto».

C’è però anche una ulteriore ipotesi, me la offre un amico prete che non conosce la storia dei Ciano ma può ben dire di averne viste tante nell’arco del suo servizio pastorale. Forse la riassumo male ma capisco che, in particolari casi, il sacerdote può dare la benedizione alla salma o officiarne il rito funebre ma mantenendo una forma assai riservata. In effetti, qui stiamo parlando di qualcosa che si è tenuto ai primissimi chiarori dell’alba (quel giorno il sole sorgeva alle 7,37): dunque, qualcosa di speciale lo era di certo, serviva quantomeno che il camposanto avesse accettato di aprire in ora così strana. Ma c’era don Angeli? Abbiamo la parola forse solo di Figara. Segnala che il prete è contattato da due suoi parrocchiani: dunque di San Jacopo, dunque forse legati al mondo della Marina militare che era stato anche il mondo della famiglia Ciano, in particolare del padre (Costanzo) e degli zii di Galeazzo (Arturo e Alessandro). È arrivato di lì il contatto con il prete antifascista?

DALL’ARCHIVIO:

L’ INCREDIBILE STORIA DEL CUGINO DI EINSTEIN IN TOSCANA

Nelle foto dall’alto: la tomba di Galeazzo Ciano a Livorno; Galeazzo con il suocero-Duce, Benito Mussolini, e più in basso con la moglie Edda, figlia prediletta del dittatore fascista; il giornalino parrocchiale di Sant’Agostino con le rivelazioni sul funerale di Ciano; la tomba di “Edda Ciano nata Mussolini”; Galeazzo Ciano in un ritratto del pittore Sciltian (le foto sono state reperite in rete o sono state fatte da me, qualora vi siano problemi chiedo di segnalarmelo e provvederò immediatamente alla rimozione)

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