Rurik Spolidoro, studente-prodigio, in nome della fedeltà alla dignità di patria e ai valori di onore militare, rompe con il Duce, si unisce ai partigiani e finisce martire a Mauthausen pochissimi giorni prima che gli alleati liberassero i prigionieri. Ecco la sua incredibile storia
di Mauro Zucchelli
In tempi bastardi come questi non ci si può accontentare di ripetersi giaculatorie rassicuranti: il 25 aprile, la cacciata dei nazifascisti, l’eroismo invitto di partigiani senza macchia né paura, la generosità di ragazzi neri dell’Oklahoma venuti a crepare dall’altra parte dell’Atlantico, la canaglierìa di aguzzini in camicia nera come la banda Koch. Tutto vero, per carità: ma basta?
L’ho già raccontato. Potrei tornare a dirvi la storia di Pietro Volpi che a Ardenza muore ammazzato da uno zelante soldatino tedesco: lui si è affacciato sull’uscio di casa in orario di coprifuoco. Questa è la scusa buona per le scartoffie militari: se l’è cercata, insomma. Invece la ragione reale è un’altra: far capire inequivocabilmente chi ha il potere prepotente di poter dire quel sì o quel no che nei versi di Primo Levi significano condanna a morte o magari no, almeno per ora, solo per ora.
Potrei, per dirne un’altra, ricordare anziani amici che si sono avviati a camminare sull’altra sponda di questo fiume che chiamiamo esistenza: ad esempio, Mario Canessa e Giuseppe Fusario. Di quest’ultimo mi viene come un granchiaccio alla gola il flash di quando mi spiegò che, in nome di una nuova fraternità, aveva deciso di non smettere di combattere una volta liberata Livorno ma proseguire perché «c’era da dare una mano a quelli del Nord».

Potrei, allungando la lista, rievocare che si era poco più che ragazzi quando si doveva prendere sulle spalle la responsabilità di guidare una formazione partigiana: si pensi a Bruno Bernini, che a 24 anni aveva il comando del Decimo Distaccamento della Terza Brigata Garibaldi e doveva vedersela con i reparti tedeschi ben inquadrati in un territorio con boschi tutt’altro che inaccessibili (e riuscire a organizzare anche l’esuberanza giovanile di ragazzi che erano senza preparazione militare e prima di tutto volevano sottrarsi alla leva repubblichina).
Potrei, guardando in casa mia, ricordare l’incubo quotidiano di mio nonno che, avendo rifiutato la tessera del fascio, era fra i bersagli di ogni rastrellamento urbano oppure la scelta di mio zio di stare nella Resistenza ma di non imbracciare il mitra «perché alla fine il mitra chiama sangue e il sangue esige prima di tutto più sangue».
Questa è una storia difficile da raccontare. Soprattutto oggi. Qui si parla di un ragazzo che: 1) muore a 22 anni e l’aveva messo nel conto già da tempo; 2) muore giovanissimo avendo subito tante di quelle atrocità sul proprio corpo che, non c’è dubbio, si sarebbe augurato di esser morto prima; 3) muore il 24 aprile 1945, cioè quando ormai potresti pensare di avercela fatta, visto che mancano 24 ore alla cacciata dei tedeschi dall’Alta Italia (anche se nessuno nel d-day dell’insurrezione poteva immaginare che sarebbe finita così anziché con altra galera e altra dittatura).
Si badi bene, la sua morte straziante non arriva nel penultimo giorno prima del giorno-clou della Liberazione mediante insurrezione e avanzata alleata. In quel momento lui è in Austria, a quattro ore di macchina dalla frontiera del Brennero: quel ragazzo ventiduenne muore a Mauthausen, anzi nel campo “gemello” di Gusen, che nella geografia della disumanizzazione industrializzata mi sembra di aver capito è stato quello più feroce di tutti, votato all’annientamento fisico tramite lavoro schiavistico. Le cronache dicono che gli alleati apriranno i cancelli del campo il 5 maggio ’45. Ancora undici giorni e ce l’avrebbe fatta. Forse: perché nei 16mila corpi che le forze armate anti-naziste trovano nel lager sono talmente disgraziati e sfiniti che uno su cinque muore comunqje pochi giorni più tardi, a campo liberato (e altre migliaia nei mesi successivi).
«È morto martire a Gusen sotto le percosse, secondo le dichiarazioni di don Gaggero, internato politico nello stesso campo, pochissimi giorni prima della Liberazione»: neanche un mese dopo la tragica fine di Spolidoro lo scrive il suo comandante, il tenente colonnello Efisio Simbula, nel rapporto informativo stilato per il comando militare regionale ligure dei Volontari armati d’Italia (Vai).
Questa è una storia difficile da raccontare soprattutto perché fuoriesce dai canoni della “santità”: quel ragazzo faceva Spolidoro di cognome. Un casato che ora risulta rarissimo: le radici sono metà in Basilicata e il resto fra Genova e Milano-Laghi. Ma il suo certificato di nascita diceva “Livorno, 6 settembre 1923”. Eccolo, un altro esponente di quella “meglio gioventù” che nasce nella Livorno a cavallo fra la Grande Guerra e il fascismo: lo statista Carlo Azeglio Ciampi, i sindaci Furio Diaz e Nicola Badaloni ma anche Bino Raugi e Alì Nannipieri (benché quest’ultimo formalmente sia di San Giuliano), e poi Elio Toaff (rabbino), Frida Misul (deportata), i parlamentari Bruno Bernini e Gianfranco Merli, uomini tv come Giuseppe Rossini, Vittorio Orefice e Gastone Ortona, lo scienziato Umberto Colombo, gli ingegneri Aurelio Lampredi e Giotto Bizzarrini, il regista Luigi Squarzina e il produttore Alfredo Bini…
Raro il cognome e ancor più raro il nome: Rurik, credo dal nome di un condottiero vichingo di oltre mille anni fa. Non è l’unico in famiglia: il padre si chiama Girolamo ma in famiglia figurano nomi tipo Elmyr, Yorick e Kemar, compaiono alti ufficiali che hanno abbracciato la carriera militare al più alto livello (e anche un po’ di sangue blu con la presenza di una marchesa nell’albero genealogico). C’è anche un altro combattente anti-nazista.

Ne sappiamo qualcosa di più. Come ricorda il suo amico Emilio Rosini in una intervista alla newsletter dell’Associazione Ex-Allievi Scuola Superiore Sant’Anna, a 16 anni era già nel collegio universitario Mussolini, l’equivalente del Sant’Anna. Il resto della storia d’una brillantissima promessa studentesca: a 19 si era laureato in giurisprudenza con 110 e lode da sottotenente degli alpini, tempo pochi mesi e prova la seconda laurea (scienze politiche).
Non ho menato il can per l’aia: questo è il contesto. Ma se è complicato raccontare questa storia il 25 aprile è per qualcos’altro. Se nel ’40, con l’Italia appena entrata in guerra, aveste chiesto a Rurik qualcosa di sé ve l’avrebbe detto senza troppi giri di parole: almeno agli inizi era «un fascista», lo conferma Rosini. E questo potrebbe spiegare perché sia rimasto così fuori dai riflettori della celebrazioni: un livornese martire a 22 anni, e per di più un genietto doc. Talmente “fuori” che non sono neanche sicuro che quella che pubblico sia davvero una sua foto.
«Quando l’ho conosciuto, nel 1940, – dice Rosini – era ancora abbastanza fedele agli ideali del fascismo, magari non del fascismo ufficiale e ortodosso, ma nel fascismo si riconosceva. Quando l’ho trovato ad Avellino era già passato su posizioni di forte critica al regime e ai suoi uomini; poi, catturato come partigiano, è morto in un campo di concentramento tedesco».
Dietro la figura di Rurik spunta quella di Davide Lajolo: una infanzia di miseria nelle campagne del Piemonte, l’entrata in collegio salesiano, l’infatuazione per la mistica fascista, la scelta della carriera militare e l’ascesa nella nomenklatura mussoliniana fino a diventare numero due del partito fascista a Ancona. Dentro però qualcosa si rompe: il culto della bella morte e la fascinazione dell’estetica dannunziana si incrinano quando lui incontra la realtà di quel che la guerra è davvero. Prima in “Classe 1912” (che sarà ristampato reintitolandolo “A conquistare la rossa primavera”) e poi in “Il voltagabbana” dà conto di come chiude con quel passato fascista così ingombrante fino a unirsi alle brigate partigiane e, in seguito, lavorare per “l’Unità” e entrare in Parlamento nei banchi comunisti. Con una sottolineatura curiosa: Ulisse è il suo nome di battaglia quando combatte in Spagna da fascista dalla parte dei franchising e resta Ulisse quando sale in montagna per unirsi alle bande partigiane e combattere contro i suoi ex camerati.
Il cambio di casacca per opportunismo in extremis? Difficile crederlo per Rurik: alla fin fine paga il prezzo più alto scegliendo di combattere contro i nazisti. Non solo: di farlo e rifarlo quando per due volte riesce a fuggire e ritorna a combattere per la libertà finché, per una spiata, lo acchiappano per la terza volta e via Bolzano finisce a Mauthausen. E qui una parentesi: andatevi a vedere cosa è stata quella galassia di campi di annientamento, uno sprofondo nell’abisso di atrocità costruito come una “macchina” ingegneristica con il proverbiale cieco efficientismo germanico.
Ricordiamo che con Rurik parliamo di un ragazzo grossomodo di vent’anni: con tutti gli impulsi dell’età e l’influsso dei valori respirati in famiglia. Dice Rosini ricordando l’amico: «Per me, anche in sede di riflessione negli anni successivi, è stato un esempio importante, perché l’ho visto passare da posizioni nostalgiche per il fascismo delle origini, per un certo fascismo rivendicazionista e, diciamo, di sinistra ad un antifascismo dichiarato e operante». Ma è qualcosa di più complesso d’un rovesciamento di fronte: «Probabilmente c’era un retaggio nazionalista, frutto magari di una tradizione o di un ambiente familiare, la patria da difendere e tutelare, un atteggiamento di fedeltà ai valori tradizionali; ma c’era anche una spinta di sinistra». Aggiungendo poi: «Io non sono passato attraverso quell’esperienza».
Provo a rimettere insieme alcuni tasselli del puzzle guardando alla sua carriera militare di ragazzo di vent’anni: anzi, a dar retta all’associazione che raggruppa i combattenti nella guerra di liberazione inquadrati nei reparti regolari delle forze armate, cioè i militari che vogliono restare militari e combattere contro nazisti e repubblichini, è poco più che diciassettenne quando si arruola come volontario nel 7° reggimento alpini (e nel marzo successivo lo mandano a fare il corso per allievi ufficiali universitari alla Scuola Centrale di Alpinismo di Aosta, poi entrerà alla Scuola allievi ufficiali di Avellino) fino a ottenere nel settembre ‘42 la promozione a sottotenente. È destinato al battaglione Feltre ma chiede nel marzo ’43 di passare «nella specialità paracadutisti»: dopo il corso di addestramento a Tarquinia, nel maggio di quell’anno lo spediscono al 10° reggimento arditi paracadutisti sabotatori a Santa Marinella (Roma): è lì che lo ritroviamo all’armistizio dell’8 settembre quando l’Italia prima manda a casa Mussolini e poi rompe con Hitler (ma nel frattempo casa Savoia lascia che le istituzioni e il Paese si spappolino fuggendo al Sud).

A meno che non si creda che Rurik s’infiltri fra gli ufficiali dei reparti più avanzati già avendo maturato una scelta controcorrente, è plausibile credere che fin qui in qualche maniera quello studente di straordinaria intelligenza sia rimasto ancora convinto di dover rispondere al richiamo della patria in guerra. Ne condivideva il regime? Forse, ma soprattutto credo sentisse forte l’idea dei valori militari: oltre a un po’ di parenti, anche suo padre mi pare fosse ufficiale della Marina militare.
Ma so anche che nei giorni dell’armistizio, quando finalmente l’Italia si chiama fuori dalla guerra al fianco di Hitler e sceglie le grandi democrazie occidentali alleate di Stalin – cioè quando c’è da decidere se consegnarsi ai tedeschi e arruolarsi con i repubblichini – Rurik sceglie di stare dalla parte delle istituzioni tricolori: e le armi le prende per sparare ai nazisti.
La carriera militare l’ho ricostruita sulla base di quanto riportato dall’associazione di quel gruppo di militari attorno ai quali, «a partire dalla fine del ’44», si ricostituisce l’esercito italiano come forza militare inquadrata «negli eserciti inglese e americano della Ottava e della Quinta Armata» e partecipando alle azioni militari sia contro la “linea gotica” tedesca sia nella fase successiva.
Mi viene in aiuto la motivazione con cui a Rurik hanno conferito, credo negli anni ’60, la medaglia d’oro al valor militare: viene catturato una prima volta e finisce nelle mani degli sgherri repubblichini a Genova. Riesce a scappare e, dribblando i rastrellamenti nei territori controllati dai tedeschi, finisce per trovare rifugio in Svizzera. Potrebbe starsene al calduccio, lontano dai guai, ma non è quello che vuole: torna in Italia e entra a «far parte delle formazioni partigiane prodigandosi senza tregua nel servizio di informazioni, in rischiose ricognizioni e per l’organizzazione della raccolta di materiali aviolanciati dagli alleati». Lo catturano di nuovo e di nuovo ce la fa a fuggire alle mani degli aguzzini: trova «riparo presso una brigata garibaldina dislocata in montagna».
Lo arrestano per la terza volta: gli fanno un’imboscata «otto Ss tedeschi camuffati da abiti civili» e stavolta non se lo lasciano più scappare. Via verso il campo più feroce, quello conosciuto anche da don Roberto Angeli, prete livornese «ribelle per amore», come diceva lui. Stavolta lo mettono nelle mani di esperti torturatori per cavargli i nomi degli altri.

Potrebbe esserci anche un terzo tentativo di fuga: lo racconta Piero Caleffi, che sarà senatore per tre legislature e vicepresidente di Palazzo Madama, beccato mentre su mandato degli alleati crea una rete per far fuggire in Svizzera militari alleati e antifascisti. C’è pure lui su quel maledetto treno che fa rotta per Bolzano e poi Mauthausen. Nelle memorie di “Si fa presto a dire fame” racconta che Spolidoro scova qualcuno che conosce: figli di famiglie amiche, compagni di collegio a Napoli. Ma con un “ma”: l’amico aveva la divisa dei nemici. Di più: anche l’amico era stato catturato e deportato in Germania, ma non aveva resistito alla prigionia e aveva accettato di indossare l’uniforme dello stato-fantoccio repubblichino di Salò. Ora Rurik piange per quell’amico che si è perso e anche l’amico non sa come uscire dalla vergogna.
Un istante, ed ecco che prendono la palla al balzo per cercare di organizzare la fuga dal treno: anche approfittando del caos che si è creato dopo che un autocarro di fascisti che sbadatamente travolto un militare tedesco che scorta il treno. Caleffi riferisce che i militari di guardia a quel gruppo sono l’ex amico di Rurik e un calabrese: pure quest’ultimo non sembra particolarmente ostile, ha evitato di denunciare un deportato che gli aveva chiesto di girarsi dall’altra parte mentre lui se la dava a gambe. È il momento buono: decidono di inventarsi di aver un bisogno fisiologico per andare nel campo lungo i binari, la scorta repubblichina avrebbe sparato mitragliate in aria lasciandoli fuggire. Il repubblichino ex compagno di Spolidoro accetta («senza entusiasmo»), l’altro si mette a gridare. Niente fuga: anzi, guai, guai, guai.
Pino Da Prati racconta qualcosa di Spolidoro in “Il triangolo rosso” (dal “marchio” con cui il lager contrassegnava i perseguitati politici come la stella gialla era per gli ebrei). Rurik – viene riferito – scopre che in un blocco del campo di Bolzano viene lasciato crepare chi è malato. Giorni più tardi riesce a rubare un po’ di patate dalla cucina del lager e chiede a uno dei suoi di “coprirlo” mentre butta le patate nelle “bocche di lupo” che sono l’unica apertura delle baracche verso l’esterno. Ci ripasserà dopo essersi procurato un po’ di medicinali, ma uno degli carnefici più feroci, «l’ “Ucraino”, un soldato delle Ss addetto alla sorveglianza e all’eliminazione dei prigionieri segregati», lo becca. «Si getta come una belva sul debole Rurik, che gli gira le spalle, sorpreso in flagrante e, con pugni e calci, lo stende al suolo».
Quale sarebbe stato il suo destino l’ha intuito fin dai tempi della prima galera a Genova. Lo ripeto, è un ragazzo di vent’anni e, siccome non è un bischero, sa bene di avere i numeri per diventare una superstar nelle professioni. Ma sul suo futuro scrive a casa qualcosa che avrà certo gelato il sangue nelle vene di sua madre: «Insegnate il mio nome anche agli altri nipotini che verranno».

Un suo parente, Marco Capurro, pubblica qui (www.marcocapurro.org/nazismo/rapportogusen.html) lettere gonfie di un senso di umanità e di amore per “l’adorata madre”: una sfilza di piccole attenzioni affettuose. Non mi sembra di vederci dentro quell’atroce seduzione estetica per la morte e la violenza che caratterizza il fascistume.
Giro al largo dalla tentazione di tradurre in adesione al partito comunista il fatto che al momento di darsi alla “macchia” in montagna si rifugia in una brigata garibaldina. È quel che pensa Emilio Rosini, anche lui al Collegio Mussolini in quegli anni («personaggi come Di Giulio sono diventati comunisti facendo i partigiani: così è stato ad esempio per il povero Spolidoro»), io non lo so e non voglio tirarlo per i capelli: io sto qui davanti a un pc e lui si è fatto fare a pezzi (e non è un modo di dire…) perché io avessi questa libertà. Avrebbe l’età per essere il più piccolo dei miei figli, figuriamoci se voglio farne una caricatura di sé stesso. Anzi, fonti vicine a lui lo escludono.
Mi chiedo però: cos’è che si era rotto in quei giovani ex fascisti? Lo racconta ancora Rosini, facendosi voce di una generazione: «C’era soprattutto una atmosfera che ci spingeva a diffidare, ad essere ostili al fascismo per la sua retorica in malafede, la sua marzialità: (…) questa incongruenza tra le dichiarazioni pubbliche di spirito civico, di onestà e la vita corrotta dei singoli gerarchi».
In effetti, anche adesso c’è quest’assurda fama: sì, Mussolini ha tolto la libertà ai nostri nonni ma, in fondo in fondo, chi se ne frega, vista l’integrità irreprensibile. Integrità? Aldo Cazzullo, dopo aver dedicato un libro intero a Mussolini come “il capobanda”, com’è stato scritto di recente racconta in teatro il “Duce deliquente”. Non illiberale, proprio delinquente: l’apologia di sé stesso come stupratore, l’eliminazione del deputato socialista Giacomo Matteotti perché voleva denunciare il malaffare della maxi-tangente arraffata dal suo clan per favorire proprio le compagnie petrolifere di quell’America che a chiacchiere odiava. All’ “amichettismo” del clan del Duce ho dedicato qualche attenzione in questo blog (il link è qui: https://ilmediterraneo.blog/2024/01/28/l-amichettismo-del-duce-il-magna-magna-dei-gerarchi-peggio-perfino-di-tangentopoli/). «Eravamo piuttosto disgustati e io ricordo (anche se può apparire una ragazzata) che andavo in giro col fiocco da anarchico, per senso di opposizione»: ancora parole di Rosini.
Nel suo libro “L’ala dell’angelo: itinerario di un comunista perplesso” così scrive questo amico che aveva condiviso con il Nostro il periodo al collegio santannino intitolato al Duce: Rurik fascista sì, «ma era appunto un fascista di sedici anni: impastati di generosità, di ingenuità, di impegno totale, di entusiasmo». Poi: fascista «perché patriota» e in quanto patriota, a 18 anni «volontario di guerra, parà e sabotatore». E proprio da patriota, nella Resistenza si prodigherà «senza tregua».

Per capire chi era Rurik, Rosini invece di raffigurarlo nei panni dell’eroe senza macchia e senza paura, lo descrive da studente quando il ragazzo livornese era latitante dopo essere fuggito per due volte dalla prigionia nazista ed esser tornato a Pisa (ancora sotto il controllo tedesco): «Nel marzo ’44, prima di essere preso per la terza volta, Spolidoro si laureò con lode. Tutti noi, in quegli anni di guerra, collegati alla nostra università per tramite della materia e angelica signorina Teresa Toniolo, bibliotecaria della facoltà, a ogni licenza si correva a Pisa per dare esami». La spiegazione era tutta qui: «La guerra non era una ragione sufficiente per non laurearsi al termine dei quattro anni di corso, il dovere di dare tempestivamente tutti gli esami prescritti era introiettato come inderogabile e si considerata poco dignitoso approfittare della possibilità data ai combattenti di laurearsi senza la tesi scritta».
No, non mi interessa affatto tirarlo per la giacchetta: al contrario, penso che proprio la fedeltà a valori di dignità di patria e di onore militare possa avere convinto Rurik a rompere con l’ideologia mussoliniana. Altro che traditori per aver troncato con Hitler e cercato l’armistizio con gli alleati, il tradimento l’aveva compiuto Mussolini quando, dopo aver temporeggiato per alcuni mesi, poche settimane prima di entrare in guerra aveva detto di aver bisogno di “qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo delle trattative”, secondo quanto riportato da Badoglio. Anche se gli stessi vertici del fascismo sapevano benissimo che il Paese non era in grado di reggere l’impatto industriale e finanziario della guerra.
Insomma, appunto le radici di Spolidoro dimostrano che potrebbe esistere lo spazio politico per una destra al di fuori del fascismo, anzi proprio antifascista. Del resto, il fronte della libertà – quello del Cln – ce l’ha fatta perché ha messo insieme un arcipelago di posizioni e culture politiche le più differenti: che si trattasse di monarchici o comunisti, di militari o anarchici, di cattolici o socialisti, di liberali o repubblicani, di operai o aristocratici. Ve la immaginate avere una destra normale che non metta a repentaglio l’identikit della nostra democrazia? Una Merkel o uno Chirac al posto di La Russa, Meloni e dintorni? Tradotto: la permanenza dell’identità antifascista di tutto l’arco delle forze in campo invece che, come è adesso, una rincorsa a uscirne e anzi a strizzare l’occhio al club degli illiberali. Cosa è il mix costituito da premierato e autonomia differenziata se non la fuoriuscita dalla Costituzione antifascista?
Non adagiamoci nell’idea facile che Meloni stia ripercorrendo i passi del primo Mussolini: bisognerebbe leggersi le cronache delle violenze di inizio anni ’20 per capire che allora gli omicidi politici da parte degli squadristi erano quotidiani. Ma ve lo siete dimenticati che per prima cosa, manco a dirlo, puntarono alle riforme elettorali per far contare di più i loro voti?
DALL’ARCHIVIO: ECCO UN’ALTRA STORIA DEL BLOG
Ps: ora mi fermo qui perché è bene che il post sia pubblicato il 25 aprile, domani lo strutturo meglio
Nelle foto, dall’alto: un primissimo piano di Rurik Spolidoro nel titolo così come poco più sotto (da combattentiliberazione.it a cura della Associazione Nazionale Combattenti Guerra di Liberazione inquadrati nei Reparti Regolari delle Forze Armate); Giuseppe Fusario in una foto da partigiano e in una poco prima di morire; Emilio Rosini, amico di Spolidoro, in una foto degli anni ’40 (dalla newsletter degli ex allievi del Sant’Anna); una formazione combattente partigiana; il rapporto interno del comandante dei Volontari armati d’Italia; la via di Banditella dedicata a Rurik Spolidoro
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Дизайн человека может помочь вам лучше понимать людей вокруг вас, их энергетический тип, и как лучше взаимодействовать с ними.
Тип – это основа, но ваша уникальность проявляется через Профиль, Центры, Каналы и Ворота.
Дизайн человека помогает понять, какой тип энергии вы излучаете, как вы принимаете решения, и как лучше использовать свою энергию, чтобы не выгорать, а чувствовать себя более удовлетворённым
Каждый Профиль состоит из двух Линий: Сознательной и Подсознательной.
Дизайн Человека (human design) – это система знаний об энергетической механике людей и космологическом устройстве мира.
Дизайн Человека позволяет учитывать индивидуальные особенность каждого человека и учит познавать свою истинную природу.