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La strage della miniera 70 anni fa: anche oggi i morti sul lavoro sono più del triplo degli omicidi

Fra serie tv e programmi di intrattenimento sui delittacci più feroci abbiamo paura di ritrovarci davanti un serial killer. In realtà, gli omicidi avvengono quasi sempre nella cerchia familiare. E la probabilità di morire sul lavoro è tre volte di più che essere assassinati. Ce lo ricordano le 43 vittime nel pozzo minerario di Ribolla morte a 300 metri di profondità

di Mauro Zucchelli

Adesso che Whatsapp, Facebook e Instagram rappresentano forse il 90% delle comunicazioni fra le persone, non so proprio come faremo fra cinquant’anni a capire come è nato un romanzo, una poesia, un film che hanno segnato un’epoca: evaporerà tutto, forse come le foto che continuiamo a scattarci. Nella moltiplicazione inverosimile delle immagini che scattiamo e nelle parole che, cento o mille volte più di prima, ci scriviamo.

La memoria svanisce: paradossale, no? Eppure oggi basta che una band faccia vent’anni di attività per aver diritto a una retrospettiva, a una consacrazione nell’Olimpo dei ricordi. Con l’ “amarcordizzazione” di qualsiasi stupidaggine: se a 40 anni viviamo di ricordi e rimpianti, adesso che gli anni sono più di 60 cosa dovrei fare?

Come al solito, l’ho presa alla larghissima. Oggi, sabato 4 maggio, è il 70° anniversario della strage di Ribolla: 43 morti in una miniera di lignite nella pancia della Maremma.

Mi sono sempre rimasti impressi perché mio nonno Sante, falegname con l’orgoglio del mestiere, quando andavo con lui da Leonetto in via del Fagiano a vederlo giocare a briscola, mi raccontava che la miniera l’aveva vissuta sulla sua pelle in Belgio, proprio a Marcinelle che nel ’56 vedrà i suoi tunnel inghiottiti da un enorme rogo. Più di 260 morti, gran parte dei quali migranti italiani presi a pedate più degli africani oggi qui (ma ancora per i minatori italiani furono ancora più tragici due disastri in miniere statunitensi negli anni in cui con la Belle Epoque ci si era inventati l’ “Europa da bere”). C’era andato perché si rifiutava di prendere la tessera fascista, e tuttavia era scappato a gambe levate dopo un pugno di giorni.

Dicevo dell’ “amarcordizzazione”. Sono passati settant’anni esatti dalla sciagura di Ribolla: forse tanti per pretendere che sia ricordata come fosse ieri, eppure per Google questo nome non è più legato a una delle più tremende tragedie sul lavoro dalla fine della guerra, semmai ha a che fare con la cultura (e il marketing) del vino. Prosit: nelle prime cento segnalazioni di Google, almeno fino a poche ore fa 96 riguardavano un vino che si chiama come la miniera.

Seguendo il cliché del post-sciagura – qualsiasi sciagura – oggi avrebbero titolato: “Cronaca di una strage annunciata”. Giovanni Cesareo l’avrebbe segnalato in “Fa notizia”, uno dei libri più geniali sugli ingranaggi nascosti del giornalismo: quel tipo di concetto sta dentro il “magazzino degli stereotipi”. Del resto, da quando nel 1981 Gabriel Garcia Marquez mette nero su bianco la “Crónica de una muerte anunciada” il gioco è fatto.

Ma a Ribolla era annunciata per davvero. Adesso ci ricordiamo (giustamente) che il Partito comunista era reticente o connivente con l’invasione dei carri armati in Ungheria ma l’ “Unità” e quei dirigenti della sinistra sapevano quali erano le condizioni concrete dei lavoratori. A fine febbraio ’54, poco più di due mesi prima della strage, è un delegato sindacale comunista della commissione interna a denunciare sul quotidiano del partito: nelle gallerie proprio di quella miniera maremmana di lignite il sistema di sicurezza contro sacche di “grisou” a rischio di esplosione è un metodo «di almeno di cinquecento anni fa», cioè l’uso del “maialino d’India” per capire se in miniera c’è un ristagno di ossido di carbonio. L’azienda lo licenzia in tronco.

Lui parla di massimizzazione del profitto, ma bisogna intenderci in quale fase siamo: forse l’era d’oro delle ligniti autarchiche è tramontata da un pezzo, probabilmente si sta solo gestendo la fine del ciclo di sfruttamento di quel sito. Dunque: non vi viene a mente il rogo della ThyssenKrupp poco prima del Natale 2007? Anche lì, in una grande fabbrica in via di chiusura: avrebbe dovuto esser già chiusa da due anni, poi una complicata serie di sfortunati eventi fa slittare l’ultimo atto e poche settimane prima del dicembre di quell’anno i sindacati e la proprietà hanno raggiunto l’accordo sul fatto che lo stop sarebbe arrivato entro il settembre successivo.

Quella di Torino la catalogano «fra i più gravi incidenti sul lavoro della nostra storia recente». È chiaro che anche un solo morto sul lavoro è un morto di troppo, ma a Torino ne muoiono sette in modo atroce: senza fare classifiche di atrocità e dolore, cosa possiamo dire di Ribolla dove ne muoiono sei volte tanto e peggio che topi a 300 metri di profondità?

Non è tutto. C’è un extra da mettere nel conto: siamo a ridosso del Primo Maggio, e la ventilazione delle gallerie sotterranee si è fermata. A che serve tutto quello spreco di elettricità se oltretutto si va verso un ridimensionamento degli impianti produttivi? Adesso che si riprende il lavoro riparte la ventilazione. Ma il sapere operaio ben conosce le condizioni laggiù in fondo al pozzo “Camorra” e segnala il pericolo di ristagni del “grisou”. La risposta è più o meno: volete saperne più degli ingegneri, voi che siete soltanto operai? Detto un po’ semplicisticamente: gli operai erano quasi analfabeti ma giù nel pozzo ci andavano davvero e forse non avevano letto sui libri le reazioni chimiche che avrebbero potuto innescarsi e quali no, ma la presenza di “grisou” avevano da intuirla se volevano salvarsi la buccia. Solo che l’ordine era quello: andare giù.

Abbiamo forse l’idea che il rischio arrivi quando il turbo-capitalismo ingrana la quarta: la massimizzazione del profitto a scapito della sicurezza quando tutto va a gonfie vele e l’economia tira come una locomotiva. Probabile che invece sia l’opposto: il pericolo è in agguato ancor di più se siamo in una fase di chiusura o comunque di pesante declino. Se il grafico dei ricavi non solo capitombola all’ingiù, la competitività l’azienda la cerca soprattutto tagliando i costi col machete. Figurarsi se presto quel sito produttivo chiuderà: il primo taglio dei costi è l’ammodernamento delle strutture, i controlli sullo stato degli impianti e la relativa manutenzione, le spese per la sicurezza di chi lavora. Come dire: è inutile spendere in qualcosa che si fermerà e non avrà ammortamento. Risultato: l’azienda incrocia le dita e spera nella buona stella.

Nel caso di Ribolla non stiamo parlando di una miniera minore. Lo spiega Ribollastory, con il lavoro di documentazione sul territorio di Stefano e Laura Maggi (con l’aiuto di Elena e Walter Scapigliati): la produzione è trainata dalla seconda guerra mondiale e raggiunge le 269mila tonnellate nel ’42 ma anche nel dopoguerra l’insediamento produttivo resta. Anzi, nel ’47 si superano le 240mila tonnellate e si tocca il record di addetti con più di 3.700 persone al lavoro in miniera in quest’angolo di Maremma. Già dall’anno successivo, però, i dipendenti sono meno di 2.200.

La produzione di lignite resta ben al di sopra degli standard di prima della guerra ma intanto si attestano attorno alle 170-180mila tonnellate (peraltro quattro-cinque volte più di quanto garantiva nella prima metà degli anni ’30): con l’ingresso negli anni ’50 c’è una ulteriore riduzione degli addetti, prima scesi sotto la soglia di 1.700 e poi neanche 1.400. Nelle miniere di Ribolla, prima della strage per l’esplosione c’è stata la “strage” dell’occupazione: sparisce un posto di lavoro su tre nel breve giro di due anni.

Dipende dal fatto che è cambiato lo scenario: la lignite, combustibile di limitata efficacia energetica (e fortemente inquinante ma a quel tempo non gliene importava granché), è destinata a esser soppiantata dal carbone e più in là dai prodotti petroliferi che il nuovo embrione d’Europa – la Comunità del Carbone e dell’Acciaio (Ceca) – sta per pompare nelle vene del sistema economico. Lo storico Marco Venanzi sottolinea che, con il via libera del governo nel ’48 (e i quattrini del piano Marshall), a cambiare le carte in tavola ci pensa anche «la riorganizzazione della siderurgia pubblica, voluta da Oscar Sinigaglia» alla guida del colosso statale Finsider: meglio «pochi grandi stabilimenti, localizzati sul mare, facili da rifornire di materie prime e carbone». È una strategia che «si basa sul prezzo conveniente del carbone e sui bassi noli». Il dado è tratto: «Con la costituzione della Ceca la siderurgia italiana non ha più bisogno di estrarre lignite».

Non è tutto. La strage di Ribolla non è l’unica tragedia di morti in miniera: nei cent’anni a partire dall’unità d’Italia, come ricorda lo studio di Scapigliati, le dieci sciagure più gravi in questo campo sono costate la vita di 738 persone. E l’apocalisse del maggio di settant’anni fa è sì la più grave ma non l’unica accaduta nella miniera maremmana.

Nel 1914 muore un operaio travolto dall’acqua di una falda che entra dentro un sotterraneo. Cinque anni più tardi, due prigionieri di guerra ungheresi rimangono ustionati in un incidente. Nel’25 esplode una sacca di “grisou” e uccide cinque minatori. Altri 14 perdono la vita nella disgraziata datata agosto ’35, agli inizi del gennaio ’39 altri tre operai muoiono asfissiati e nell’autunno ’45 nuovo incidente mortale con undici vittime. Anche nell’anno precedente alla sciagura del maggio ’54, si contano due morti in altrettanti incidenti sul lavoro, l’uno a gennaio e l’altro a fine estate.

La lunga striscia nera dei lutti non si ferma neppure dopo l’esplosione che inghiotte la vita di 43 persone sulla quale ho fissato lo sguardo. Il ministero ha deciso la sospensione di ogni attività estrattiva ma solo nel pozzo dell’esplosione e in quelli accanto. La miniera è in smantellamento: non ha più una prospettiva economica reale e dunque sembra avere i giorni contati. Poi invece che i giorni sono i mesi, e infine gli anni: ci vogliono cinque anni per chiuderla. Nel frattempo si registrano altri tre morti in tre differenti situazioni. La prima, ad appena otto giorni dalla strage: in un’altra galleria non bloccata uno scoppio ha ammazzato un minatore. Tempo nemmeno tre mesi, e un’altra esplosione scaglia un pezzo di legno contro un minatore e lo uccide. Nella primavera del ’56 l’ultimo della serie: un cedimento del terreno inghiotte un operaio, muore soffocato.

Dall’archivio di Ribollastory (e da quello di Walter Scapigliati) emerge pure che, perfino in questo stillicidio di infortuni mortali, l’insieme delle miniere della provincia di Grosseto presentano un numero di morti sul lavoro terribile sì ma meno terribile di quel che accade altrove:  dal ’46 al ’50 nelle miniere grossetane si ha uno standard di morti per milione di ore lavorate distante dalla media nel resto d’Italia: ad esempio, nel ’46 1,1 infortuni mortali in Maremma per milione di ore contro le 5,5 nelle altre realtà italiane. Idem anche nel confronto con le miniere francesi di carbone e lignite: nel ’51 in Maremma siamo a un morto per milione di ore e in Francia si supera quota tre. Non parliamo poi degli Usa: nelle miniere di carbone, bitume e lignite la frequenza degli infortuni mortali è anche otto volte superiore.

Dunque, ha la ragione la difesa dell’azienda quando derubrica la strage di Ribolla a «mera fatalità»? Credo di aver mostrato quanto la “fatalità” copra il rischio che il sistema delle imprese accetta di far correre ai propri operai, soprattutto quando si è in fase di smantellamento: come alla ThyssenKrupp, come a Ribolla. Qualcosa di simile ai morti per incidenti stradale: un prezzo che è stato evidentemente deciso di ritenere accettabile: costa migliaia di vittime ogni anno ma, se non ne siamo direttamente colpiti, è un prezzo che accettiamo di pagare pur di avere la libertà di muoverci rapidamente…

Anche oggi ci saranno tre morti sul lavoro. E se oggi per caso dovessero essere uno o due, vuol semplicemente dire che domani o dopodomani saranno magari cinque. I morti sul lavoro non sono quelli che vanno al tg della sera: se accade è solo perché alcuni “bucano” la cappa dell’indifferenza. La “normalità” è di un migliaio di morti ogni anno. Nelle cifre dell’Osservatorio di Vega Engineering: 1.270 nel 2020 quando per il Covid parte delle attività erano bloccate, 1.271 nel 2021, 1.090 nel 2022 e 1.041 nel 2023 (ma si sa che c’è una fisiologica sottostima statistica quantomeno nell’anno più recente).

Una enormità, se pensiamo che è più del triplo del numero di tutti gli omicidi (330) che si sono verificati in un anno in tutta Italia. Eppure il “marketing della paura” ci ha resi così insicuri che nessuno crederebbe davvero che, dopo la fine del terrorismo e delle guerre di mafia, l’Italia è uno dei paesi d’Europa dove si contano meno morti ammazzati. Non solo: in tre casi su quattro l’omicida appartiene alla cerchia familiare. Come dire: ne uccide più la famiglia (o gli ex famiiari) che la mafia, figuriamoci il serial killer…

Una enormità: non se ne parla mai abbastanza, però in certo qual modo una qualche consapevolezza comincia a diffondersi. Un dossier di Giuseppe Brunetta pubblicato cinquant’anni fa spiega che nel nostro Paese per via di infortuni sul lavoro nei vent’anni dal ’51 al ’70 si sono avuti «oltre 97.500 morti e circa un milione e mezzo di invalidi permanenti». La fotografia di un’annata è questa: nel ’69 si sono registrati su scala nazionale 4.858 morti sul lavoro e 67.610 invalidi permanenti.

Per avere un raffronto un po’ choc: i quasi 100mila morti sul lavoro in quegli anni lontani di industria galoppante sono assai di più delle vittime nel corso della guerra scatenata dall’aggressione russa all’Ucraina. È una “guerra”, appunto. E se adesso noto che la frequenza degli operai morti sul lavoro sono la metà della metà di mezzo secolo fa, non è solo per una maggiore consapevolezza e un più efficace intervento della magistratura. C’è anche da tener conto che: 1) l’automazione industriale ha reso meno pesanti alcune lavorazioni; 2) l’industria italiana ora si occupa di settori più soft; 3) una parte del sistema industriale è stato smantellato e ora le produzioni a più basso valore aggiunto e a più alto impatto sulla salute operaia sono state spesso delocalizzate in Paesi lontani.

Ma il ricordo di Ribolla ci riporta oggi anche a una inchiesta a quattro mani che, poco prima della strage del maggio ’54, fecero due tipi un po’ strani: Luciano Bianciardi e Carlo Cassola non erano cronisti bensì scrittori, erano colleghi in cattedra (poi Bianciardi diventerà direttore della biblioteca locale). Le questioni del lavoro erano più centrali: anche nella politica. Adesso ti accorgi subito che quasi sempre – e con quel “quasi” sono davvero ottimista – i dirigenti politici non sanno cosa si lavora in quella fabbrica, quali sono gli sbocchi di mercato, quali problemi ci sono nel rapporto fra azienda e lavoratori. Pochi luoghi comuni e una sensazione di estraneità.

Non era così per Bianciardi e Cassola, che racconteranno per l’ “Avanti!” la vita standard di questa comunità di povericristi: si intitola “I minatori della Maremma”, è reperibile in alcune delle biblioteche (è stato ristampato anche in una edizione più recente).

In un borgo in cui tutti ma proprio tutti lavorano nella miniera, i figli sanno che sono destinati a prendere il posto dei padri laggiù nel sottosuolo. L’azienda mineraria possiede la miniera ma anche le case degli operai, la mensa, la chiesa, lo spaccio (almeno fino a quando i minatori non creano una leggendaria coop di consumatori).

Cassola e Bianciardi escono umanamente a pezzi dalla strage dei 43 minatori: molti li avevano conosciuti di persona. Non potendo condividere la polvere di carbone che si appiccicava alla pelle, avevano condiviso con quel che sapevano fare – scrivere – la fatica di chi si calava nei pozzi e campava gran parte della giornata senza vedere il sole, in un ambiente caldo (anche 37 gradi), con la paura costante di saltare per aria.

A Bianciardi quel grumo nero doveva esser rimasto in fondo al cuore: lo vedo in “La vita agra”, che scrive quando ormai ha tagliato i ponti e se n’è andato via dalla “sua” Maremma. Non c’è giustizia per i suoi minatori, manca poco che vengano a dire che l’esplosione se la sono cercata. E lui apre il terzo capitolo del suo libro più bello e più amaro così: «Ora appunto io venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e di cemento, chiedendomi a quale finestra, in quale stanza, in quale cassetto potevano aver messo la pratica degli assegni assistenziali» relativa ai 43 morti della strage di Ribolla («i quarantatré morti del quattro maggio»). Se lo chiede soprattutto perché vorrebbe capire dove «inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione». Ma con precisione chimica: il metano va miscelato con aria «fra il sei e il sedici per cento» perché così «diventi grisù», e anche il quartier generale della grande impresa sperimenti cosa vuol dire saltare per aria per il “grisou” com’era accaduto ai poveri minatori.  

DALL’ARCHIVIO DEL BLOG: IL LINK A UN’ALTRA STORIA DEL NOSTRO PASSATO

Nelle foto, dall’alto: foto di gruppo per alcuni lavoratori in miniera; la copertina della “Domenica del Corriere” dedicata alla strage di Ribolla; due immagini del trasporto delle bare con il camion (pubblicate sul “Tirreno”) e, in mezzo, lo scatto del pozzo dell’esplosione com’è ora; un altro gruppo di minatori; lo scrittore Luciano Bianciardi (le immagini sono state in gran parte reperite in rete e ritenute di uso libero; qualora vi sia qualcosa in contrario, vi invitiamo a segnalarmelo nei commenti così che io possa provvedere a cancellare immediatamente la foto)

2 Comments

  1. bianchimassimo ha detto:

    Una storia drammatica e dolorosa. Oggi purtroppo sconosciuta ai giovani, che qualche volta viene ricordata nelle troppe occasioni quando ci sono vittime del lavoro. La piaga delle morti sui posti di lavoro è lungi dall’estinguersi, anzi dalle statistiche si apprende che sono in aumento ,nonostante gli appelli per una maggiore sicurezza ,primo fra tutti quello del Presidente della Repubblica. Grazie del ricordo ,stai facendo un” servizio civile2 utile per tutti noi . Saluti Massimo

    1. Mauro Zucchelli ha detto:

      Grazie, Massimo. Questo richiamo al passato l’ho fatto per sottolineare qualcosa che non riguarda una singola tragedia: sono rimasto senza fiato quando ho letto che, nel ventennio del boom economico fin quasi allo “sboom”, in Italia sono morte sul lavoro 97.500 persone (e un milione e mezzo sono rimaste inabili). Un bilancio che sembra quello di una guerra

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