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Finalmente liberata una famiglia ridotta in schiavitù da 19 anni. «Grazie, livornesi»

La solidarietà messa in moto dalla parrocchia di San Ferdinando: dall’Asia una foto che è un ringraziamento con dedica alla chiesa nel cuore della Venezia. È affidata ai padri trinitari, che da secoli si battono per la liberazione degli schiavi: all’interno, un magnifico altare con l’angelo che spezza le catene degli schiavi. Oggi nel mondo in schiavitù quasi 50 milioni di persone

di Mauro Zucchelli

La ragazza si mette in posa per la foto, ai due lati i genitori: lei deve avere imparato che le emozioni si controllano, il babbo ha un sorriso che vien voglia di chiedergli cosa sogna per il futuro. Non saprei che età possa avere la ragazza: forse trent’anni, forse di più, a giudicare dal fatto che suo padre accanto sembra averne una settantina, forse un po’ meno. Di lei non so neanche il nome, e nemmeno quale sia il suo paese: so soltanto che da quando aveva cominciato a capire qualcosa non aveva conosciuto nient’altro che la schiavitù.

Esattamente, avete capito bene: schiavitù. Come secoli, millenni fa. Lei, loro: una “cosa” senza nessun tipo di diritti che non sia la benevolenza del padrone. È a lui che appartiene la ragazza così come tutta la famiglia: come un cavallo o un muretto, un campo di pomodori, un tavolino sbilenco o la vecchia moto Honda. Per capirci: non è nemmeno libera di rifiutare un salario di niente e crepare di fame. Può un cavallo o una moto dire no e andarsene? No che non può. “Schiavitù” non è un modo di dire per definire una condizione di ipersfruttamento selvaggio: è proprio privazione di ogni possibilità. Lo ripeto: parliamo di oggi, anno di grazia 2024.

«Ce l’abbiamo fatta». Il messaggio WhatsApp stavolta mi arriva dalla parrocchia livornese di San Ferdinando, cuore antico della Venezia. Tanti anni fa, nella “repubblica separata” del quartiere più ribelle, qui prestava servizio padre Saglietto: tutti anarchici, rossi sovversivi e anticlericali ma quel prete lì guai a chi lo toccava. Adesso c’è padre Emil Kolaczyk.

Da più di tre secoli qui ci sono i padri trinitari, veste bianca con croce rosso-azzurra. E un impegno speciale che è lo stesso fin da quando, grossomodo negli stessi anni medievali di San Francesco, anzi un po’ prima, nacque questo ordine: liberare gli oppressi dalla schiavitù. Talvolta anche quella metaforica (prostituzione minorile controllata dalle gang, alcolismo, droghe) ma qui è la schiavitù degli schiavi: quelli nelle piantagioni di cotone dell’America confederata che i filo-Trump non disdegnano, quelli delle fabbriche-lager dei nazisti in tempo di Reich.

Ma cosa c’entro io, cosa c’entriamo noi che abitiamo fra la Variante Aurelia e il West? Lo dice il cartello che tengono in mano: dice “grazie Livorno”. Per la precisione: grazie alla «parrocchia San Ferdinando di Livorno». Aggiungendo: «Thnk you for freedom».

La libertà è il “riscatto” che una mobilitazione silenziosa, assai sottotraccia, ha raccolto qui fra noi per affrancare dal loro padrone questa famiglia. «Isaq e Rashida e i loro figli sono felici e grati ai padri trinitari e alla parrocchia San Ferdinando perché grazie a loro adesso possono finalmente vivere liberi», dice il giornale online della diocesi. Sono cristiani e, a motivo della loro fede, vivevano come schiavi in Asia: padre Emil dice che non può dare troppi dettagli «per motivi di sicurezza». Segno che ci sono altre operazioni simili in corso? Che questa famiglia è in salvo sì ma talvolta non sei mai abbastanza al sicuro dalle ondate di fondamentalismo, specie se aizzate dalle istituzioni?

A quasi ottomila chilometri dall’uscio di casa nostra, si è spalancata una nuova vita per loro: «Amano la loro nuova casa e il nuovo lavoro del capofamiglia». Farà il venditore di frutta. Era «da 19 anni» che questa gente era «schiava in una fabbrica di mattoni». Colpevoli di esser cristiani, ma – mi viene raccontato – è una condizione che sperimentano anche musulmani e ebrei: ci sono realtà che, come i padri trinitari, si mobilitano per la loro liberazione.

Conviene andare nella chiesa dei padri trinitari in piazza del Luogo Pio anche per scoprire un gruppo scultoreo forse ancora troppo poco noto. Sì, c’è Gesù, c’è lo Spirito Santo e tutto quel che ci deve essere in un’opera d’arte che sta in una chiesa cattolica. Ma, caso raro, più che l’omaggio alla divinità, sull’altare trionfa l’umanità dell’angelo che strappa le catene e libera due schiavi: è un gruppo realizzato all’inizio del Settecento dallo scultore carrarese Giovanni Baratta. Grazie ai restauri è stato ridata una gran luce bianca a tutta la chiesa, un bell’esempio di barocco che non ha niente da invidiare a edifici sacri ben più noti in tutta la nostra Toscana.

Non sto qui a ritornare sull’eterna polemica relativa al monumento che mette quattro pirati barbareschi (bronzo scuro) resi schiavi ai piedi del magnifico granduca Ferdinando (marmo chiaro): mi domando come mai il monumento al sovrano mediceo sia paradossalmente chiamato Quattro Mori. Ma non è questo il punto: ricordo che il vescovo Diego Coletti chiese a me di spiegargli come mai i livornesi, fieri della tradizione multiculturale, tengono così tanto ai Quattro Mori invece che valorizzare il monumento all’Angelo liberatore che è ben più in linea con il dna della “città senza ghetto”. Risposta: non c’è.

Il “Global slavery index” è il metro con cui a livello internazionale si misura la presenza di moderna schiavitù e la vulnerabilità dei sistemi a queste forme di oppressione. Non è l’ingiustizia salariale o l’accrescersi della diseguaglianza a danno delle famiglie meno abbienti: è la stima di quante persone vivono in una condizione che le imprigiona e dalla quale non possono fuggire neanche volendo. L’Index segnala 49,6 milioni di persone in queste condizioni di deprivazione radicale, magari sotto il controllo di organizzazioni e “caporali”: due schiavi su tre sono in Asia. In testa alla “classifica” c’è l’India con undici milioni di persone.

Proprio l’India che l’Occidente sta scegliendo come partner geopolitico in Asia per fronteggiare l’avanzata cinese. Proprio l’India che in questi giorni sta vivendo un round elettorale per cui senti dire che è al voto la più grande democrazia del mondo (poco meno di un miliardo di votanti): il via il 19 aprile ma si andrà avanti fino all’inizio di giugno. Budget al di sopra degli otto miliardi di dollari, un esercito di 15 milioni di funzionari elettorali in grado di allestire un seggio nel raggio di due chilometri da chiunque, perfino a quasi 5mila metri di altitudine: lo dicono i ricercatori dell’Ispi facendo la radiografia di questa elefantiaca operazione elettorale che non ha precedenti al mondo.

Per essere grande è sicuramente grande, ma è davvero democrazia? Il candidato praticamente sicuro di vincere è l’attuale premier Modi, contro di lui il principale fronte di opposizione raggruppa attorno al “Congress” guidato dall’ennesimo Gandhi una galassia di una trentina di forze e potentati locali: la puntata 72 del podcast “Altri Orienti”, copyright Simone Pieranni, potrebbe raccontarvi meglio di me perché anziché per l’India di Modi parla di “autocrazia elettorale”. Riassumendo: il principale partito d’opposizione si è ritrovato con i conti in banca bloccati per via di una bega da 15mila euro risalente a quasi trent’anni fa; il partito al potere ha accusato di corruzione uno degli avversari e giù una sfilza di arresti e guai giudiziari. Ma Modi è l’eroe dell’Occidente che dovrà salvarci da Pechino: a prezzo di chiudere un occhio sul fatto che, come denunciano i padri trinitari, crescono le atrocità ai danni dei cristiani. Pazienza, no? Non ci siamo tenuti Noriega, Pinochet e Videla come amici: figuriamoci se ci fa schifo Modi che non butta gli oppositori dall’aereo in mezzo all’Oceano Atlantico per farli affogare al largo senza far trovare i corpi…

Il “Global slavery” è una classifica impietosa: al secondo posto c’è la Cina con quasi sei milioni di schiavi e al terzo la Corea del Nord con la metà. Ma al di sopra del milione di schiavi stimati ci sono altri grandi paesi, ovviamente alcuni fra i più popolosi al mondo: Pakistan, Russia, Indonesia, Nigeria, Turchia, Bangladesh. E, udite udite, gli Stati Uniti (al cui governo però viene riconosciuto uno dei più forti impegni al mondo per contrastare il fenomeno). In rapporto al numero di abitanti, la moderna schiavitù è maggiormente radicata in Corea del Nord, Eritrea, Mauritania, Arabia Saudita e Turchia. Sono 17 gli stati che hanno nel proprio ordinamento la possibilità del lavoro forzato. Quanto al fatto che il sistema risulta vulnerabile al rischio di moderna schiavitù, lo studio guarda soprattutto all’Africa e, oltre allo Yemen, mette in fila: Sud Sudan, Somalia, Repubblica Centroafricana, Repubblica democratica del Congo (ex Zaire). È praticamente la fascia di destabilizzazione (e di fame) che sta terremotando gli assetti a sud del Sahara.

Occhio che la “fotografia” riguarda anche noi: in Italia, secondo l’indagine di “Global Slavery”, se ne contano 197mila. Quanto l’intera città di Brescia o di Parma, quanto Livorno più Collesalvetti e Rosignano.

La tratta degli esseri umani è un business ancora diffuso, se è vero che l’Onu ha deciso di istituire il 30 luglio come giornata mondiale per richiamare l’attenzione su questo problema. L’Ispi ricorda che «la schiavitù non è un ricordo del passato»: l’ultimo report dell’ufficio Onu che si occupa di prevenzione del crimine e di lotta alla droga, sottolinea che «quasi un terzo delle vittime di tratta sono minori». Soprattutto con declinazione al femminile: «il 71% del totale è costituito da donne e bambine».

DALL’ARCHIVIO DEL BLOG: UN’ALTRA STORIA PER PROVARE A CAPIRE

Nelle foto, dall’alto: il gruppo scultoreo settecentesco all’interno della chiesa di San Ferdinando; foto di gruppo per la famiglia asiatica liberata dalla schiavitù grazie alla solidarietà dei livornesi; le infografiche di Ispi dedicate al nuovo schiavismo

2 Comments

  1. bianchimassimo ha detto:

    Una bella ed educativa storia che invita a riflettere .Grazie come sempre.Saluti cari

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  2. bianchimassimo ha detto:

    Caro Mauro ,veramente una bella storia che ho letto più volte .Credo proprio che la memoria riannodi i fili con la nostra storia collettiva. Alla prossima puntata. Grazie e tanti saluti.Massimo

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