Nei giorni del voto un doppio anniversario che parla alle sinistre: il 40° della morte del leader Pci e il centenario dell’assassinio del deputato socialista da parte del regime fascista. E a dicembre saranno i cent’anni dalla nascita di Badaloni e Ablondi: ecco la “meglio gioventù” degli anni ’20 che ha fatto la nostra storia
di Mauro Zucchelli
Chissà mai quale singolare capriccio del destino poteva far coincidere pressoché le date: da un lato, il voto che deciderà il volto del governo locale a Livorno nella più complicata elezione dal dopoguerra in poi mentre a Roma per la prima volta la destra-destra ha conquistato il Palazzo; dall’altro, il doppio anniversario di due “martiri” delle sinistre, con il centenario della morte del socialista Giacomo Matteotti (assassinato dai sicari del regime fascista) e il 40° della scomparsa di Enrico Berlinguer (fulminato durante un comizio a Padova). Talvolta ridotti entrambi a “santini” per pater-ave-gloria laici.
Matteotti: dopo aver pronunciato in Parlamento un durissimo atto d’accusa contro Mussolini in cui sembra già prevedere che quelle parole gli costeranno la vita, viene sequestrato da una ghenga di assassini che quasi sicuramente su incarico del Duce o quantomeno dei suoi stretti collaboratori lo fanno fuori.
Berlinguer: sul palco del comizio di Padova il malore lo colpisce mentre sta spronando la sua gente ad andare «casa per casa, azienda per azienda, strada per strada», una chiamata a raccolta in nome di «quel che siamo stati e siamo», così da «conquistare nuovi e più vasti consensi alle nostre liste, alla nostra causa, che è la causa della pace, della libertà, del lavoro e del progresso della nostra società». Lo si sente incespicare nelle parole, la folla si accorge che sta malissimo, ha il volto stravolto ma non si ferma finché le forze non lo abbandonano del tutto. È la sera di giovedì 7 giugno, morirà lunedì 11: per lui, leader comunista, pregheranno pure le suore. Anche a Livorno, per quel che ne so.
Il centrosinistra si aggrappa a questa doppia morte per vederne trasfigurata la testimonianza di una integrità morale a tutta prova: forse anche la capacità di indicare una prospettiva che francamente ora si stenta a vedere. In questi tempi idioti li avrebbero definiti forse radical-chic, il “partito della Ztl” (quando, eccezion fatta per le metropoli, in tante città proprio come Livorno è invece il centro a patire il degrado…): sia l’uno come l’altro avevano alle spalle famiglie borghesi e non avevano bisogno di atteggiarsi a figli del sottoproletariato per far sentire alle classi popolari che erano dalla loro parte. Basti pensare a quanta ritrosia e timidezza mostra il leader del Pci quando Roberto Benigni lo prende in braccio a una manifestazione Fgci per la pace un anno esatto prima che Berlinguer morisse. Basti pensare alla sua fuga dalla casa di un imprenditore amico durante una vacanza all’Elba, che ho raccontato nel libro “Berlinguer” edito da Sae: per sottrarsi al controllo della scorta salì di nascosto su un bus di linea, un po’ come il papa riluttante nel film di Nanni Moretti che vorrebbe solo riacquisire alla sua esistenza un minimo di normalità.
È forse impossibile non vedere tanto l’uno quanto l’altro se non nell’atto conclusivo delle loro vite: “martiri”, appunto. Invece proviamo a ripescarli da vivi perché, chissà, magari hanno qualcosa da dirci: senza che da parte mia ci sia l’ambizione di scrivere storia ma solo di fare il cronista, magari a ritroso nel tempo. Giusto per spiegare come mai una sera di luglio ’75 – ecco, un altro anniversario alle porte: il cinquantesimo – Enrico Berlinguer scelse proprio Livorno per lanciare in tandem con il leader comunista spagnolo Santiago Carrillo l’idea dell’eurocomunismo. L’idea era quella di un “tornare a Livorno” e fare in qualche modo i conti con la scissione del ’21.
È un richiamo ad aprirsi ad un arcobaleno di nuove soggettività al di fuori del proprio recinto di partito: lo dice senza fare il ganzo dopo che l’avanzata elettorale l’ha portato al quasi-sorpasso della Dc (primo partito in ogni regione del Centro nord tranne Lombardia e Veneto). Lo dice in anticipo sulle date ufficiali previste con la conferenza di Berlino dei partiti comunisti europei (giugno dell’anno successivo) o il vertice di Madrid fra comunisti italiani, francesi e spagnoli (marzo ’77).
In altre sedi ho richiamato un post di Claudio Frontera su iltirreno.it: sottolineava che a Mosca dalla tribuna del Pcus Berlinguer aveva parlato della «scelta di Livorno per quell’appuntamento di particolare valore europeo ed internazionale». Frontera metteva l’accento sul «valore simbolico della scelta della città dove il comunismo italiano era nato, come il luogo ideale per proclamare, coram populo, davanti cioè al proprio popolo e apertamente, in modo argomentato e forte, la irreversibile scelta dell’autonomia della sinistra italiana dalla tutela sovietica, maturata gradualmente dal 1956 in poi, e la scelta di navigare nel mare aperto di un mondo che cambiava e si apriva al ruolo di nuovi soggetti mondiali, quali la stessa Europa (non ancora Unione Europea)». Quel post risale a dieci anni fa e rammenta l’ «entusiasmo indimenticabile» della piazza livornese. Lo fa per ribadire che «è oggi difficile credere che quel grande patrimonio di intelligenza collettiva, modernità, coraggio, innovazione politica e culturale e di passione per la politica, condensati nella figura di Enrico Berlinguer e nei suoi comizi, mai venati da populismo o demagogia e sempre pacati, razionali, quanto capaci di suscitare profonda adesione, sia oggi disperso e ammutolito».
Ecco, le impronte di Berlinguer a Livorno ci sono, eccome. A cominciare da quei giorni della primavera del 1950, quando il (futuro) leader più amato del Pci diventerà il numero uno dei giovani comunisti al congresso nazionale, proprio mentre la città sogna la ricostruzione e nel frattempo è agitata da una sfilza di scosse di terremoto che varranno una copertina della “Domenica del Corriere”. Lo rivedremo dalle nostre parti nel luglio ’71 alla Rotonda di Ardenza (per un comizio nei mesi in cui la democrazia è sull’orlo del precipizio a causa del tentato golpe Borghese) e nel febbraio ’79 al palasport (poco dopo l’assassinio dell’operaio Pci Guido Rossa per mano delle Brigate Rosse). Lo ricorda un bel libro di Maurizio Mini e Mauro Nocchi edito da Erasmo, che richiama l’attenzione anche su un documento riservato del ’51 riguardante le trattative fra gli americani e il governo democristiano per tagliare fuori i portuali comunisti dal porto di Livorno strategico per gli Usa.
Potremmo però mettere nel conto anche un ulteriore appuntamento perché nel settembre 1982 a Tirrenia si tiene la festa nazionale dell’Unità: la foto della minuta figura di Berlinguer preso sul palco di spalle mentre ha davanti una distesa di oltre un milione di facce la ritroveremo nell’analoga immagine-cult che il fotografo Luigi Ghirri scatterà l’anno successivo a Reggio Emilia.
A Berlinguer ora si attaccano tutti prescindendo da quel che esprimeva: il paragone è un po’ scapestrato ma vale come per Che Guevara sul quale si proiettano i sogni inquieti di generazioni anche se talvolta a vanvera. Accade così anche per Berlinguer: il “compianto sul Cristo morto” (cit. Giotto, Scrovegni) nasconde il fatto che probabilmente, se non fosse morto, una parte del vertice Pci avrebbe cercato di fargli la festa o comunque tenerlo sotto schiaffo alla prima occasione dopo il rientro dal tour nelle città. Lo tirano tutti per la giacca: una bella fetta di quanti ne fanno una bandiera di sinistra rosso antico, Berlinguer probabilmente li avrebbe cortesemente fatti messi fuori dall’uscio perché non bisogna equivocare l’apertura a nuove soggettività come fossero strizzate d’occhio all’estremismo più radicale. Anche il Pd si è dimenticato un bello spicchio del suo insegnamento: il “compromesso storico” nasceva, dopo il golpe in Cile, dal fatto che 1) non si governa con il 51%; 2) sì alla democrazia occidentale e alla Nato. Tradotto: il partito a vocazione maggioritaria è stato l’asse portante del pensiero politico Pd ma è in Italia una stupidaggine che storicamente in natura non si è mai data, ed è il contrario della strategia berlingueriana. L’ho chiesto sia a Prodi che a Veltroni in due incontri a Livorno e la risposta non è saltata fuori. Ci ha provato un po’ Fassino a dirmelo ma francamente senza convincere forse neanche sé stesso.
Ci sarebbe di che raccontare. A partire dal fatto che in piazza della Repubblica quella sera di luglio c’era anche un cantante come Claudio Villa, così famoso e così tradizionale. Ci sarebbe da riprendere il filo della permanenza di Carrillo a Livorno e di quella volta che Luigi Vanni, leader operaio del Cantiere nel team dei fidatissimi, rispose al re Juan Carlos che stava cercando un dirigente politico ufficialmente latitante per la Spagna ancora franchista…
Pressoché in contemporanea con l’anniversario della morte di Berlinguer c’è il centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti. Non sono riuscito a trovare traccia di un intervento politico di Matteotti a Livorno, magari dopo la conquista del Comune da parte dei socialisti. Anche al più famoso congresso socialista, quello a Livorno nel gennaio 1921 dal quale per scissione nacque il Partito comunista, nell’ultima commemorazione ufficiale in Senato è stato ribadito che rimase solo il primo giorno: nel resoconto stenografico pubblicato dall’ “Avanti!” non c’è traccia di Matteotti in quell’assise se non in una citazione di sfuggita che ne fa Graziadei. Mi pare di poter ricostruire che il deputato di Fratta Polesine se n’è andato di rincorsa dal Goldoni prima della scissione perché, mentre la platea congressuale si perdeva nel latinorum del “chi è più di chi” (nello scontro fra le varie anime più o meno affascinate dalla possibilità di una rivoluzione sovietica anche qui da noi), le urgenze concrete e immediate delle sue zone lo richiamavano alla realtà delle violenze fasciste.
«Matteotti abbandona Livorno dopo il primo giorno di congresso per correre a Ferrara», conferma Concetto Vecchio in “Io vi accuso” appena uscito per i tipi di Utet: «In seguito ad alcuni incidenti con i fascisti sono stato arrestati il sindaco socialista Temistocle Bogianckino e il segretario della Camera del Lavoro Gaetano Zirardini». Aggiungendo: «Anche Matteotti, una volta giunto in Emilia, è aggredito dalle camicie nere», dice Vecchio.
Già allora non è indispensabile avere la sfera di cristallo per intuire che la violenza fascista è una marea montante: la lista dei blitz degli squadristi fascisti era già lunga come una telenovela. In autunno a San Giovanni Rotondo i carabinieri insieme agli “arditi di Cristo” ammazzano 13 socialisti che festeggiano la giunta rossa. A Bologna doppia aggressione con doppio morto nello stesso bar a distanza di 15 giorni, poi l’assalto fascista alla sede del municipio per cacciare i “rossi” fa scorrere altro sangue, anche fascista. Con l’elenco ci si potrebbero riempire pagine e pagine: a me interessa sottolineare che probabilmente, siccome i morti sono da ambo le parti, in casa socialista o ci si fa abbagliare dall’ideologia del sol dell’avvenir o magari si pensa che semplicemente si è alzato il livello dello scontro ma le organizzazioni operaie sono in grado di reggerlo.
L’ho già detto, a Ferrara Matteotti sperimenta sulla propria pelle che l’aggressività dei fascisti è sempre più forte. Anche se la cronaca del “Corriere” lascia capire che un buon cordone di carabinieri ce la fa a mettere a cuccia le “camicie nere”. Del resto, proprio in quelle settimane il deputato socialista è diventato il numero uno della Camera del lavoro, e deve vedersela con l’assassinio di un fornaio mentre esce dalla sede del sindacato. Non è tutto: a quanto riportano “La Stampa” e “Corriere”, Matteotti stesso pochi giorni prima è stato sequestrato da una gang di fascisti e portato in aperta campagna per un “interrogatorio”. Idem poco più tardi, con un nuovo tentativo di aggredirlo. Matteotti non si tira indietro eppure ne avrebbe il motivo, visto che di lì a pochi giorni nasce il secondo figlio: porterà il nome del fratello di Giacomo, morto troppo presto.
È uno dei pochi che tiene gli occhi aperti: il congresso della scissione è passato da pochissimo, e lui denuncia in Parlamento la «congiura del silenzio» sulle scorribande dei fascisti a caccia dei capi del movimento dei contadini. Accusa gli agrari di dare agli squadristi gli indirizzi dei capi sindacali da colpire, si presentano in cento nella notte ad assediare una casa nella campagna e intimano al capolega di scendere per farsi torturare o ammazzare, altrimenti daranno fuoco a tutto con i familiari del sindacalista dentro. È per questo che, nonostante il congresso nazionale sia un appuntamento-chiave per un dirigente di partito, appena sente l’aria che tira a Ferrara non ha dubbi: «A Livorno non vi è modo di salvare l’unità del partito; a Ferrara l’emergenza è massima e i compagni non hanno punti di riferimento», scrive lo storico Mimmo Franzinelli. Il suo posto è nella trincea di Ferrara…
Ma di cosa dovrebbe aver paura il Partito socialista? Nel giro di un paio di anni gli iscritti sono balzati da 81mila a 216mila, le sezioni da quasi 1.900 a oltre 4.300, i deputati da meno di cinquanta a 156, le province rosse sono balzate da otto a 25 e i comuni in mano ai socialisti da 350 a 2.500. I numeri messi nero su bianco da lascerebbero supporre che semmai è il Partito socialista a fare paura. In effetti, sì: e la Ferrara del deputato “rosso” diventa – parole di Franzinelli nell’ultimo libro sulle vite parallele di Matteotti e Mussolini – «il laboratorio dell’intesa operativa tra agrari, squadristi e strutture periferiche dello Stato (prefettura, questura, carabinieri, magistratura)».
Ferrara è uno dei territori dove gli agrari sono più inferociti contro la minaccia socialista del “biennio rosso”, presto a Milano saranno «oltre 200» le fabbriche occupate dagli operai. La reazione padronale è la più dura possibile. Matteotti suona il campanello d’allarme. C’è lui dietro l’ “Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia” che fino al giugno 1921 mette in fila due anni di violenza delle squadracce e li fa emergere come qualcosa di ben diverso da un impulso occasionale di reazione incontrollata.
È come se, con quella fuga dal congresso livornese della scissione, Matteotti volesse chiamarsi fuori da un dibattito interno che si è fatto lunare in mezzo alla tempesta delle aggressioni. Lui è un riformista doc: non pacifista a tutti i costi ma ben lontano dall’illusione che la rivoluzione sarebbe arrivata domattina. Forse perché appartiene alla tradizione del socialismo padano del buon amministrare e del cooperativismo dal basso, e poi ha il radicamento sul territorio e nei problemi reali dei lavoratori: tutto questo lo vaccina contro le scorciatoie dell’ideologia e del settarismo. Con un giudizio sui tempi (lenti) e sui modi (legali) della svolta in favore dei ceti subalterni che forse risulta, paradossalmente e senza volerlo, più “marxista” nella lettura delle condizioni sociali rispetto a tanti altri che facevano si erano messi l’abito buono dei rivoluzionari senza macchia e senza paura.
Un cronista di provincia non ha le competenze che ha lo storico, ma spero di riuscire a tornare a parlare stavolta del Matteotti martire: ci riproverò a breve, in qualche misura il palcoscenico l’ho disegnato nel post dedicato all’ “amichettismo” del Duce, vedrò di fare qualche passo in più.
Seguendo il filo rosso degli anniversari in cifra tonda, a parte l’80° della liberazione della città dai nazifascisti, vale la pena di ricordare che nel prossimo mese di dicembre Livorno potrà ricordare il centenario della nascita di due figure importanti per la nostra storia: poco prima del Natale di cent’anni fa sono nati, a distanza di tre giorni, il professor Nicola Badaloni (sindaco dal ’54 per dodici anni, intellettuale comunista e preside di facoltà a Pisa) e il vescovo Alberto Ablondi (alla guida della diocesi labronica per un trentennio e esponente di punta del dialogo ecumenico). Sarebbe uno scandalo se Livorno li dimenticasse: forse lo ha già fatto, e un indizio è la miseria intellettuale di polemichette acchiappa-voti relative all’intitolazione del nuovo ponte alla Rotonda. Però, al di là dei singoli nomi, potrebbe essere l’occasione anche per accendere i riflettori sulla “meglio gioventù” nata qui da noi fra la Grande Guerra e la fine degli anni ’20: mancherà all’appello senz’altro qualche nome, ma tanto per averne un’idea ecco che la gallery di talenti si apre inevitabilmente con uno statista come Carlo Azeglio Ciampi, poi tutta la fila dei sindaci che hanno retto la città fino agli anni ’80 (oltre a Badaloni, ecco Furio Diaz, Bino Raugi e Alì Nannipieri.
Fra i politici c’era anche un’altra Diaz, la sorella Laura, deputata Pci. Ma anche: Edda Fagni (parlamentare del Pci e poi di Rifondazione), Gianfranco Merli (dirigente Dc, sua la prima legge anti-inquinamento), Bruno Bernini (comandante partigiano e leader internazionale dei giovani comunisti), Umberto Colombo (scienziato, presidente Enea e ministro con Ciampi).
Appartiene a questa leva generazionale labronica Elio Toaff, per decenni il principale riferimento dell’ebraismo italiano: dall’amicizia con Ablondi è germogliata la svolta che porterà poi alla storica visita di papa Wojtyla alla sinagoga di Roma. Idem pure Frida Misul, fra le prime a raccontare cos’era il lager. E se questi sono gli anni in cui si spegne il genio di Amedeo Modigliani, è anche il periodo in cui vengono al mondo artisti del calibro di Elio Marchegiani e Gianfranco Baruchello, Renato Spagnoli e Voltolino Fontani; in letteratura, ecco i libri di Carlo Coccioli e soprattutto Giorgio Caproni, uno dei più grandi poeti del Novecento; nel cinema Luigi Squarzina e Alfredo Bini, il produttore di alcuni film di Pasolini; nella tecnica due big come gli ingegneri Giotto Bizzarrini e Aurelio Lampredi, qualche bel capitolo della storia dell’automobilismo è marchiata dalla loro firma.
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Grande Mauro! (non solo Shipping)
Spero di ricordarmi qualcosa anche di banchine e teu ma non ci giurerei: chissà