De Majo amarcord: Luciano e il “suo” Cantiere fanno capolino dentro il “mangimificio” di Porta a Mare

Oggi, 20 febbraio, è il 13° anniversario che il mio compagno di banco non c’è più. Il suo ricordo mi è venuto incontro per caso: in uno spazio in cui finalmente nessuno ti vende nulla, la storia dell’antica fabbrica-simbolo salta fuori. È un brano dell’ultimo pezzo di Luciano: il suo testamento di cronista per la sua gente

di Mauro Zucchelli

Accipicchia, di giornali ne aveva girati parecchi: che si trattasse di carta stampata (prima “La nazione”, poi “L’Unità”, infine casa sua al “Tirreno”), di radio (“Flash”) o di online (“Greenreport”), solo per dire quel che mi viene in mente. Ma per tirare il filo della memoria e raccontare Luciano De Majo, nel tredicesimo anniversario del giorno in cui se n’è andato sull’altra sponda del fiume, stavolta vorrei andarmelo a cercare in un posto che aveva caro come pochi, lui che non si dava pace come il suo Borgo potesse esser bianconero. Proprio in Borgo sì: il Cantiere.

Potrei dire che lo faccio perché mi è risalito dagli abissi degli amarcord il tal venerdì d’un maggio radioso – come solo un maggio può esserlo – in cui mi ero infilato nel suo ufficio di responsabile della comunicazione del Cantiere in forma di coop: in certo qual modo era dall’altra parte della barricata, eppure sentiva che a difendere il buon nome di quella cooperativa di lavoratori la barricata era rimasta quella e lui era sempre dalla solita parte.

Non ero tornato a vedere cosa ne avevano fatto: roba da uffici, c’è perfino un gioiellino tech acquisito dalla galassia Apple (che fa di tutto per starsene defilato). Quasi in contemporanea se n’erano andati la Fabbrica e il mio Compagno di Banco. Nel frattempo non avevo visto nascere «la piazza a mare tipo quella di Trieste intitolata all’Unità d’Italia», come mi aveva detto fiero l’architetto Augusto Cagnardi la volta che mi aveva presentato un tassello-chiave del puzzle del suo piano regolatore. Niente “piazza a mare” lì dov’era lo scalo Umbria, solo metri cubi di mattoni e neon. Sempre meglio dell’altra “piazza a mare” che Livorno avrebbe da un bel pezzo, quella fra prefettura, Inps e cinema Quattro Mori: un triste parcheggio con ancor più tristi aiuoline in dolce stil Bucarest anni ’60.

Ero lì a girellare che dovevo ancora decidermi se tuffarmi anch’io in quest’idea per cui la modernità è Starbucks che vorrebbe infilarmi uno sciroppo nel cappuccino o l’ennesima catena di non so quale giubbino, l’alternativa fra hamburger e sushi oppure uno zibaldone di giochini da rimbambirsi ad libitum. Ecco che vado a sbattere in uno spazio che parrebbe vuoto: non c’è nessuno che vuol vendermi niente e mi domando quando arriva la fregatura, un «bel prodottino che, guardi, fa proprio per lei». Invece lo spazio vuoto richiama un pieno di storia: della storia di qui.

Ma non basta. «Di indissolubile c’era il rapporto fra la fabbrica e la città, la gente comune. Anche perché bastava la parola: Cantiere. Improvvisamente si percepiva che non c’era famiglia livornese che non avesse incrociato la sua storia con quella dello stabilimento-simbolo della città. […] La storia del Cantiere Orlando è tante storie insieme, è un intrecciarsi di fatti, di luoghi, di persone e di idee». Riverbera un suono antico in queste parole che per curiosità leggo. Il motivo lo scopro nella firma: Luciano De Majo, “Il Tirreno”. L’ho passato io quel pezzo. La data mi ricorda che non è un pezzo: 3 febbraio 2011, neanche tre settimane prima di lasciarci per sempre. A vedersela faccia a faccia con il tumore eppure con la voglia di fare quel mestiere che è stato una vita: il cronista. Di più: il cronista che racconta la Fabbrica, la “sua” gente.

È l’ultimo pezzo di Luciano: un testamento, non so come dirlo con altre parole mentre un “ovosodo” si pianta in mezzo alla gola e «non va né su né giù».

Quest’articolo l’avevo già infilato negli e-book che di anno in anno, nel giorno dell’anniversario, avevo pubblicato approfittando degli spazi online del “Tirreno”, il giornale in cui siamo stati compagni di banco. Sono andato a rileggermelo per riscoprire cosa Luciano avesse scritto là dove l’esigenza di brevità di un cartellone aveva imposto di tagliare. Lo copierò qui sotto, ma prima allargo lo sguardo alle magnifiche foto degli operai del Cantiere al lavoro in fabbrica o, quella più grande, credo all’uscita con una sorta di “quarto stato” in tuta blu che corre, forse per far più presto ad arrivare a casa, forse perché qualcuno deve andare a prendere il bimbo a scuola, forse solo perché il fornaio sta per chiudere. Se ho capito bene, è un lavoro di Coop Itinera sulla base delle foto che ha in archivio la Biblioteca Labronica, alcune sono di Luciano De Nigris, altre di Luciano Ciriello (che bella combriccola, tutti questi Luciani che ho conosciuto…) e altre non so. E qui invio l’invito a tutti e a ciascuno perché, se capitate da quelle parti, non dimentichiate di fare un giro di giostra in questo spazio amarcord…

Lascio la parola a Luciano De Majo. Il brano citato è l’avvio di quel pezzo. Poi: «Dagli Orlando, siciliani garibaldini, che di fatto dettero il via all’industria cittadina col loro sbarco a Livorno, agli anni del fascismo nei quali i sovversivi erano controllati ma pur sempre tollerati in fabbrica, per garantire la presenza di operai qualificati, in grado di costruire navi efficienti, al dopoguerra denso di battaglie per l’occupazione, fino all’esperienza cooperativa durata cinque anni dopo la decisione dello Stato di ritirarsi da Livorno».

Continua così. «L’aspetto più suggestivo, quello che ancora oggi è capace di colpire la fantasia e l’immaginazione, si tocca forse nei modelli delle navi realizzate agli inizi del ‘900. C’era di tutto: ferry-boat come il “Villa”, che imbarcava il treno per collegare Sicilia e Calabria, oppure yacht di super-lusso come il “Flying Cloud” costruito per il duca di Westminster, una dimora galleggiante sontuosa per gli anni ’20. Ma attenzione alle produzioni militari, che se da un lato rappresentarono il nerbo dell’attività del Cantiere Orlando all’inizio della sua avventura proprio per dotare il neonato Stato unitario di una flotta adeguata, tornarono in auge nel periodo fra le due guerre. Ne aveva un disperato bisogno l’Italia fascista smaniosa di conquistarsi un posto al sole, eppure nessuno ha mai dimenticato l’epopea del “Tashkent”, incrociatore veloce che il Cantiere realizzò per la Marina militare sovietica. La leggenda narra che gli operai livornesi ci misero l’anima nel costruirlo. E in effetti l’unità arrivò alla velocità di 44 nodi in prova».

Il racconto di Luciano prosegue. «Il muro che divideva la fabbrica dalla piazza Mazzini, in realtà, era solo immaginario. Perché dopo le distruzioni belliche, i livornesi promossero addirittura una sottoscrizione perché lo scalo Morosini, lo scivolo gigante su cui prendevano corpo le grandi navi, fosse ricostruito non dopo, ma insieme alle loro case. «Cemento per lo scalo Morosini», scrissero i giornali dell’epoca. E fu festa grande quando, alla fine, la decisione presa fu proprio quella: il “Morosini” rinacque per essere poi abbandonato negli anni ’60, quando la proprietà della fabbrica, ormai ampiamente nelle mani delle Partecipazioni statali, ne decise un drastico ridimensionamento della capacità produttiva. L’accordo raggiunto a Roma – era il 1962 – portò alla creazione della Cmf di Guasticce, dove venne dirottata parte della manodopera del Cantiere».

Infine. «Non è azzardato dire che il resto è storia di oggi, o quasi: la decisione di Fincantieri di disfarsi della fabbrica a metà degli anni ’90, la nascita di una cooperativa che non aveva precedenti nel settore delle produzioni e delle riparazioni navali, la cui avventura è terminata con una grave crisi sulla cui genesi e responsabilità la città non si è mai interrogata in modo approfondito. Oggi, dove una volta sorgeva il Cantiere di San Rocco, campeggia l’insegna di Azimut Benetti. Non più gasiere o traghetti, ma yacht di lusso. I tanti “Flying Cloud” del terzo millennio».

Ora sono in casa mia, e posso farmi venire i lucciconi agli occhi, anche adesso che ho quasi 64 anni e secondo i cliché del mestiere dovrei avere quel cinismo da osteria che mettono in mostra i vecchi cronisti quando raccontano. Si vede che non sono granché: i lucciconi ce li avevo anche laggiù davanti al cartellone alle ex Officine, ma lo sapevo soltanto io che quello era l’ultimo pezzo di Luciano. E forse lo sapevo soltanto io che quell’insieme di attrezzi (la tenaglia da fabbro, il girabecchino, il compasso ad arco) ricordavano non soltanto l’antico orgoglio di mestiere dell’operaio del Cantiere ma anche la memoria di Fabio Ponzuoli che in quel Cantiere è morto sul lavoro nell’autunno ‘93 a trent’anni.

In quel pezzo c’è dentro tutto. La parabola del Cantiere che ha visto mille stagioni. Come il varo della “Lepanto” nel 1883: davanti a re e regina con l’ingegner Salvatore Orlando che, siccome sa di aver azzardato molto, si inventa una soluzione ardita per evitare il patatrac all’entrata in acqua e comunque si tiene un revolver in tasca, casomai tutto finisse storto. Come il cacciatorpediniere Tashkent: negli anni del consenso-clou al Duce, lo realizzano con enorme slancio gli operai comunisti del Cantiere perché l’ha commissionato nel ’37 la Marina militare di Stalin, sarà consegnato ai sovietici alla vigilia della seconda guerra mondiale. Come l’incredibile tentativo della “coop di coop” con cui a metà anni ‘90 gli operai entrarono nella “stanza dei bottoni” nella fabbrica-simbolo: proprio loro si accorsero che qualcosa non quadrava quando “l’Unità” equivocò fra Cantiere e portuali, e capitò che in dieci mesi si susseguissero tre incidenti mortali sul lavoro, ma è rimasto come un tentativo forte di inventare una via livornese a qualcosa di diverso dal turbo-capitalismo (e giustamente De Majo ricorda che la città ha rimosso la fine di quell’esperienza). Come la nuova fase dei giga-yacht: con Azimut Benetti che praticamente da un quarto di secolo, anno dopo anno, è al primo posto nella classifica mondiale degli yacht formato XXXL.

Ho cercato in tutti gli sport e in qualsiasi cosa sia trasformabile in classifica: non esiste niente di paragonabile a questo primato. Altro che Maranello della Ferrari. È come mettere insieme l’Inter di Lautaro e quella dello Special One, più il Barcellona di Leo Messi, il Real Madrid di Di Stefano, il Man City di Pep Guardiola e un po’ di Bayern. Se poi pensiamo che al secondo posto c’è un cantiere che ha una sede anche a Pisa e che sull’asse fra la Bellana livornese, la Darsena pisana dei Navicelli e quella di Viareggio c’è forse il più grande distretto al mondo in fatto di nautica di alta gamma, bisognerebbe che esistesse anche qualcuno che ne fa una strategia di sviluppo. Per i “Flying Cloud” di domani e magari dopodomani.

Qui bisognerebbe aprire un altro capitolo o forse un libro intero, se bastasse. Siamo nelle ex Officine storiche e nello scalo Umbria, là dove la classe operaia forse non andava in paradiso ma esercitava con orgoglio la propria capacità di mestiere: quel qualcosa che ha portato parecchi operai a mettersi in proprio e tentare l’avventura imprenditoriale basandosi non sui profeti del mindfulset ma sulla bravura nel “saper fa’ l’occhi alle puci”, come si diceva un tempo. E’ la storia del babbo di Luciano, Roberto, ma anche quella della famiglia Lotti di Carpensalda e della famiglia Evangelisti delle Officine San Marco, solo per citare i primi nomi che mi vengono in mente. Al loro posto ci sono i cappuccini all’americana, i maglioncini, gli ipergiochi tech con simulazioni che nemmeno alla Nasa.

Quel mondo non c’è più, ed è vero. E’ la parabola che sembra riguardare un Paese intero: sapevamo fare le utilitarie per far muovere mezza Europa, ora se va bene produciamo l’Italian style ma certe vole mettiamo solo il marchio chic a quel che produce la manifattura all’altro capo del mondo. Come se avessimo perso la capacità di farla noi la manifattura e non ci restasse che rinchiuderci a fare il museo di noi stessi. Ma forse qualcosa è rimasto di quella capacità, di quell’arte che un tempo era metalmeccanica e carpentiera: non è forse vero che siamo ancora la seconda potenza nell’export manifatturiero? non è forse vero che ora la leadership industriale si esercita nell’elettromedicale, nei macchinari complessi, nell’automazione 4.0? Dall’altra parte di via Edda Fagni le tute blu si contano ancora a centinaia. Al tempo stesso, l’abbattimento del muro della Fabbrica e la rideterminazione del perimetro dei capannoni offre alla città una occasione storica: un nuovo disegno del lungomare che ne raddoppia l’estensione fino al magnifico (e sconosciuto) Forte della Bocca e oltre.

No, Luciano, non tutto è perduto: ora magari i proletari di tutto il mondo da unire sono i rider in sella a una bici o le badanti che parlano male l’italiano. Ma il punto è sempre quello: addavvenì qualcuno che sappia dare un orizzonte e una prospettiva, e se l’Internazionale la ricomporranno con l’intelligenza artificiale, pazienza. Qualcuno per alzare una bandiera verrà.

DALL’ ARCHIVIO

Nelle foto, dall’alto: un bel ritratto di Luciano De Majo e poi una serie di immagini dell’archivio della Biblioteca comunale Labronica riguardanti il Cantiere e i suoi operai (ma anche gli attrezzi del mestiere) che sono esposte alla Porta a Mare (qualora vi siano problemi chiedo di segnalarmelo e provvederò immediatamente alla rimozione)

Una replica a “De Majo amarcord: Luciano e il “suo” Cantiere fanno capolino dentro il “mangimificio” di Porta a Mare”

  1. Avatar Pierpaolo Poggianti
    Pierpaolo Poggianti

    Grazie.

    PP

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