Il Goldoni dei destini incrociati: la scissione del Pci e il conclave Cgil, poi espugnato dal fascismo, e la scintilla fra Grillo e Casaleggio

Il teatro livornese è il tempio in cui si officiano le grandi liturgie della politica. Non solo spettacolo: oltre a Mascagni e i filmetti pop, ogni fase storica l’ha consacrato come lo spazio pubblico da conquistare.    

di Mauro Zucchelli

È al Goldoni che va in scena il congresso della scissione socialista dalla quale nascerà il Partito comunista. È al Goldoni che, con l’incontro fra Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, nel camerino del comico genovese a margine di uno show, scocca la primissima scintilla dei Cinque Stelle. Basterebbe questo a raccontare una storia: l’ho fatto anni fa da cronista del “Tirreno”. Riprendo il filo di questa narrazione adesso perché in questo puzzle ho scoperto qualche tassello in più. Credo sia meglio farlo ripartendo da lontano.

Riparto dalle cose, e non c’è niente che sia più “cosa” del mattone. In questo caso, parlo di una “cosa” che è anche un contenitore, e perciò è destinato a diventare mille cose differenti a seconda del contenuto. Se poi pensiamo che per contenuto mi immagino qualcosa che abbia la stessa sostanza delle parole e delle idee, di sentimenti, sogni o incubi, ecco che il mattone si fa casa. Ma se la casa è grande quanto mille persone, non c’è dubbio: parlo di un teatro.

Ho preso la rincorsa da lontano per parlare del teatro Goldoni. Dirò solo che nasce nel cuore di Livorno, quando un po’ prima di metà Ottocento la città mette il naso fuori dal vecchio perimetro. Chiariamo, è un oggi di 190 anni fa: il Covid di allora – una delle tante epidemie di colera – si è portato via più di 1.100 morti, ammazzato un livornese su 70, visto che la città aveva grossomodo la metà degli abitanti di adesso. C’è ancora il granduca, la generazione successiva si ritroverà sotto il tricolore sabaudo ma fino a quell’oggi lì nessuno nemmeno si immagina che presto la storia comincerà a correre.

Intanto, è bene dirlo, quel che corre è il mattone. Ad esempio, per celebrare la fine del colera si alza la più enorme chiesa della città (non a caso, intitolata a Santa Maria del Soccorso): e se vi pare gigantesca così com’è, vale la pena che mi pare di ricordare il progetto di un collegio o monastero o qualcosa del genere che avrebbe occupato buona parte della piazza, salvo poi esser sostituito da giardini a causa della mancanza di fondi adeguati alle ambizioni. Detto per inciso, il principale benefattore era un tale che, non stiamo a sottilizzare come, si era procurato un capolavoro del Beato Angelico (finirà poi nel buio dei magazzini per decenni finché negli anni ’90 il vescovo ausiliare Savio tornò a esporlo proprio al Soccorso: ora è in duomo nella cappella laterale).

A 300 metri da lì c’è qualcun altro che pensa alla crescita della città non tanto in termini religiosi quanto semmai sotto il profilo della cultura, dello spettacolo e del divertimento. In quegli anni la famiglia dell’impresario Francesco Caporali affida all’architetto Giuseppe Cappellini la costruzione del teatro che sarà inizialmente intitolato al granduca ma verrà inaugurato a cent’anni esatti da quando a Livorno proprio Carlo Goldoni prese definitivamente la strada della commedia teatrale anziché quella della toga.

Il teatro livornese ha un gioiello straordinario che ne fa un unicum: mi riferisco a quella meraviglia che è il tetto trasparente costituito da un enorme lucernario grande quanto il teatro. Questa singolare copertura è stata prevista nel progetto ottocentesco per dare illuminazione all’interno in un periodo in cui non c’era l’elettricità, adesso che abbiamo le lampade ha un fascino straordinario con quel disegno che si irraggia da un asse centrale.

E tuttavia, così come la chiesa del Soccorso nasce grande ma azzoppata dell’espansione successiva (meno male…), anche il nuovo teatro deve arrangiarsi. Si infila in un lotto edificatorio di una certa qual dimensione: dunque, l’identikit a ferro di cavallo perché ellittica non ci sta; dunque, il palcoscenico dalle dimensioni irregolari; dunque, nel loggiato possono passare le carrozze perché in tal modo si risparmia spazio. E anche per le decorazioni ci si arrangia a ridurre, tagliare, diminuire (ma mantenendo un bel look neoclassico). Del resto, non è una magniloquente opera pubblica e quindi anche lo spazio pubblico sul quale si affaccia non bada a creare grandiose scenografie urbane: la piazza, grazie tante se c’è e poco importa se è piccola e sghimbescia.

Non è solo questo: basta ripercorrere la storia del teatro seguendo le orme di Fulvio Venturi, ed ecco che salta fuori come già dall’inizio la famiglia dell’impresario costruttore si ritrova in difficoltà. Ad appena quattro anni dalla fine dei lavori il teatro è ko perché ci piove dentro: colpa forse del terremoto che potrebbe aver creato problemi di tenuta del gigantesco lucernario. Fortuna che arriva il cambio di proprietà, entra in scena il mercante greco Pandely Rodocanacchi: si allea con una agenzia che gli fornisce spettacoli di gusto popolare e a basso prezzo. Detto tra parentesi: ero poco più che ragazzino la domenica della mia prima volta al Goldoni. Ma non era in cartellone né una “Turandot” né Carmelo Bene ma, assai più pop, Franco Franchi in “Il sergente Rompiglioni”. La trama semplicemente non c’era ma fece il record al botteghino.

Riprendo il filo. L’inaugurazione bis arriva a otto anni di distanza dalla prima. Ma niente è per sempre e prima del 1870 un gruppo di facoltosi cittadini guidati da Augusto Traxler rileva la struttura, di lì a pochi anni passa di mano ad altre congreghe locali alternando attività e black out.

Ripesco dalle pagine del mio ex compagno di banco, lo storico Marco Di Giovanni, l’idea di vedere in questo teatro, sull’esempio dei lavori di Mario Isnenghi, una sorta di «piazza coperta»: il luogo dello spettacolo ma anche della socialità, e d’una socialità politica se è vero che il debutto a ridosso del terremoto politico del 1848-49 lo porta di per sé a farsi voce di «quel clima infuocato» (si pensi a spettacoli come “La cacciata degli austriaci” nel maggio ’48 e, subito dopo, “La caduta di Peschiera”). Non è tutto: Di Giovanni segnala anche che è qui che Francesco Domenico Guerrazzi lancia la sfida per l’ascesa politica, è qui che si riuniscono i patrioti labronici per mettere a punto quella incredibile pagina di ribellione che è la disperata difesa della città dall’attacco della più potente armata del mondo nel maggio 1849. Senza dimenticare le iniziative patriottiche a cavallo del passaggio sotto Savoia e Cavour, ma nel segno di Garibaldi: l’episodio di Teano portato sulla scena e la “beneficiata” in favore delle forze garibaldine.

Il Goldoni è luogo della politica anche quando in realtà è solo palcoscenico. Nel volume presentato in occasione dell’inaugurazione post-restauro nell’era di Gianfranco Lamberti sindaco, si sottolinea il ruolo di rispecchiamento del nuovo ordine costituito a fine Ottocento: ad esempio, nella “fiera del Goldoni” che nel febbraio 1901 la “Gazzetta livornese” indica come «ormai una necessità pei livornesi». Ma soprattutto in una occasione doc come la visita del re e della regina nel 1892: è al Goldoni che Mascagni, fresco del successo di “Cavalleria rusticana”, dirige le bande militari della città e offre al sovrano un inno patriottico sabaudo.

Di Giovanni lo vede come il luogo dell’interclassismo in cui, nei differenti ordini dei biglietti, ciascuno al proprio posto, si rispecchia una certa organicità dei rapporti sociali di fronte alla rappresentazione sulla scena. Ma anche: il luogo in cui le classi dirigenti della città si mostrano al Paese. Mascagni ne è il simbolo (con ospiti d’onore come Gabriele D’Annunzio e il Duca degli Abruzzi) così come la grande commemorazione  in morte di Giuseppe Verdi. Anche l’introduzione del “cinematografo Lumiere” non è solo una novità tecnologica: in tandem con le celebrazioni del genetliaco della regina madre, ecco l’osanna all’osservanza sabauda nell’uso del nuovo strumento di spettacolo per far vedere “il trasporto della salma di Sua Maestà Umberto I” in una pellicola lunghissima almeno per quei tempi.

Si sbriciola quell’egemonia della borghesia liberale, va in pezzi quell’idea del Goldoni come specchio di quell’assetto. Niente ne dà la raffigurazione più dell’evento-clou citato un fantastiliardo di volte: è previsto al Goldoni nel gennaio 1921 il congresso nazionale del Partito socialista che schianterà la sinistra e porterà alla fuoriuscita dei delegati di parte comunista che andranno al teatro San Marco a dar vita al loro nuovo partito. C’è la testimonianza di Umberto Terracini e ci sono le pagine dello storico Paolo Spriano a mettere l’accento su un fatto simbolico: quel che sarà il più grande Partito comunista di tutto l’Occidente industrializzato nasce “al freddo e al gelo”. Prendessimo a paragone l’iconografia di un’altra ben nota nascita, il teatro San Marco è messo peggio d’una capannuccia: i delegati tengono aperti gli ombrelli perché piove dal tetto, i finestroni sono sfondati, il pavimento è una pozzanghera, figurarsi in che condizioni sono le poltroncine (sfondate) e il palcoscenico (traballante)…

Si può piangere lacrime amare di fronte al fatto che i congressisti del Goldoni si accorgano proprio poco del fascismo in arrivo (nonostante tutte le avvisaglie del caso); si può sorridere di fronte alle pagine del quotidiano locale che vengono assorbite per più di metà di ogni edizione dal resoconto quasi notarile del congresso (come se oggi “Repubblica” uscisse con 40 pagine dedicate al congresso Pd). A me quel che interessa è che tutto questo sia andato in scena al Goldoni che acquista il ruolo di uno spazio politico forte: il nuovo potere socialista della città cerca nel Goldoni il simbolo di un effettivo trapasso ordinato dalle oligarchie liberali al nuovo ceto politico dirigente. Q Quel congresso dev’esserne il suggello: uno sforzo organizzativo enorme per far vedere che anche il partito del movimento operaio sa fare le cose in modo appropriato. Perfino con il profluvio di decorazioni vegetali e floreali (il cronista locale ironizza sulla platea trasformata in una mezza foresta…).

Non dimentichiamoci che 14 mesi prima della scissione più celebre della storia d’Italia al Goldoni si era tenuta la chiusura della campagna elettorale del fronte liberale. Voleva fare argine contro la marea montante dei socialisti che proprio in quell’elezione mostrano tutta la loro forza: pochi mesi più tardi avrebbero conquistato il Comune con la giunta rossa del sindaco Uberto Mondolfi, amico di Amedeo Modigliani.

Non dimentichiamoci che nel febbraio 1920 al Goldoni, par di capire sotto il loggiato anziché sul palcoscenico, si tiene il comizio del leader anarchico Errico Malatesta, che pochi giorni prima lo aveva fatto anche al teatro San Marco (che di lì a 11 mesi avrebbe dato asilo ai comunisti).

Non dimentichiamoci che, poche settimane dopo il congresso della scissione (dal 26 febbraio al 2 marzo), il Goldoni ospita il congresso della Confederazione Generale del Lavoro, il principale sindacato italiano che è stato la “mamma” dalla quale nascerà la Cgil.

Attenzione, soprattutto, a quel che accadrà di lì a poco: la “reconquista” da parte dei fascisti dello spazio simbolico del Goldoni. Non è una interpretazione che a posteriori fa tornare una tesina preconfezionata, lo dice il susseguirsi delle date che trasformano il teatro in un covo in camicia nera: 1) il 17 marzo 1921 l’adunanza del fascio locale; 2) tre giorni più tardi, il congresso regionale dei fascisti; 3) in aprile il doppio comizio di Dino Perrone Compagni, ras delle squadracce in Toscana; 4) a fine aprile l’evento-simbolo dell’alleanza fra fascismo e vecchi apparati liberali sotto la regia di Costanzo Ciano; 5) nel giugno 1922 l’iniziativa del Comitato per il monumento ai caduti di guerra che raccoglie un vasto arco di forze. Il completamento della trasformazione è data dal fatto che qui davanti il fascio livornese trova la sua sede, è qui davanti che partono le manifestazioni per celebrare la cacciata violenta della giunta rossa (agosto 1922) e il successo della marcia su Roma (poche settimane dopo).

Rubo a Di Giovanni la sottolineatura di una trasformazione nel corso del Ventennio: il rapporto con le masse ha come luogo d’elezione l’adunata che ha bisogno di spazi tipo stadio, ecco che il teatro Goldoni non è più il luogo della trasversalità fra le classi – beninteso, ciascuna nel proprio rango – bensì officia la liturgia per un pubblico più selezionato, quello della rispettabilità borghese. Lo studioso livornese indica due cinquantenari in pompa magna: quello della prima di “Cavalleria” nel 1940 ma soprattutto quello dell’Accademia Navale nel 1931 (con tanto di famiglia reale, a cominciare dal re in persona, più il varo di un incrociatore al Cantiere e la serata di gala organizzata dalla nomenklatura nera ovviamente al Goldoni).

A ciò si aggiungano altri tre eventi. L’uno, nel 1934: per evitare ai cittadini quella scocciatura che sono le elezioni, il regime prepara un listone di centinaia di nomi per il ruolo di deputato e ai cittadini spetta il compito di votare sì (in effetti, il “no” a quel punto sarebbe «maleducazione de’ ppopolo italiano», cit. Benigni). E dov’è che Costanzo Ciano, potentissimo capoclan e consuocero del Duce, fa il comizio decisivo? Al Goldoni, appunto. L’altro, nel 1938: Mussolini porta l’Italia fuori dall’Onu di allora e si prepara a far ruzzolare gli italiani verso la guerra. E dov’è che Giovanni Ansaldo, ex liberale e poi grandefirma di quella “Gazzetta Ufficiosa” che è il giornale di Galeazzo Ciano, chiama a raccolta la borghesia in difesa del regime? Al Goldoni, certo. Il terzo, nel 1940: Hitler ha già fatto sfracelli, siamo a pochi giorni dall’entrata in guerra dell’Italia e c’è da compattare l’opinione pubblica. E dov’è che, con tanto di ministro, si radunano le corporazioni delle classi dirigenti? Rieccoci, al Goldoni.

Bisognerebbe aggiungerne un quarto, ma riguarda il dopoguerra. Dov’è che la presenza dei militari alleati si manifesta in tutta la sua forza? Proprio qui, al Goldoni: il teatro viene riservato agli spettacoli per le truppe angloamericane.

Ma c’è anche qualcos’altro di ben più vicino ai tempi de’ noantri: è al Goldoni che scocca la primissima scintilla del motore politico che porterà alla creazione dei Cinque Stelle. Dieci anni quasi esatti prima che il M5s rompa la lunghissima egemonia della sinistra nel governo locale, ecco che nella primavera 2004 – poche settimane dopo la riapertura (con l’inaugurazione post-restauro alla presenza di Carlo Azeglio Ciampi) – Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio si incontrano a margine di uno spettacolo che il comico genovese ha in agenda nel teatro livornese. Chissà se all’uno o all’altro è venuto da sorridere pensando al fatto che 83 anni prima da quelle porte e su quelle scale erano passati Amadeo Bordiga, Umberto Terracini e una sfilza di delegati per litigare con i socialisti e poi andarsene a fondare il nuovo Partito comunista.

Grillo era già qualcosa di simile a un predicatore, la sua era una ironia caustica sui guai dell’Occidente: come al solito, anche quel poker di date livornesi avevano visto la caccia al biglietto: già da giorni bruciati tutti quelli disponibili. Figurarsi che, come sul “Tirreno” raccontava Cristiana Grasso, c’erano spettatori aggrappati «persino sul palco, appollaiati su una trentina di seggioline pieghevoli sistemate ai lati».

Il racconto di quel giorno lo trovo nel libro di Federico Mello (curriculum fra “Fatto Quotidiano” e Santoro, ora in RadioRai) e scopro che entrambi dicono che è stato l’altro a fare il primo passo. Casaleggio al “Corriere”: nel 2004 Beppe Grillo legge un libro di Casaleggio e cerca di contattarlo, «Lo incontrai alla fine di un suo spettacolo a Livorno e condividemmo gran parte delle idee». Grillo: «Venne in camerino e cominciò a parlarmi di Rete. Di come potesse cambiare il mondo. Non conoscendolo lo assecondai. Gli sorrisi. Cercai di non contrariarlo. Temevo di ritrovarmi una chiocciola o un puntocom in qualche posto sensibile. Era molto convinto di quello che diceva. Pensai che fosse un genio del male o una sorta di San Francesco che invece che ai lupi e agli uccellini parlasse a Internet». E poi: «Mi parlò allora, per spiegarsi meglio, di Calimero il pulcino nero, Gurdjieff, Giorgio Gaber, Galileo Galilei, Anna di York, Kipling, Jacques Carelman e degli adoratori del banano. Tutto fu chiaro, era un pazzo. Pazzo di una pazzia nuova, in cui ogni cosa cambia in meglio grazie alla Rete».

Ho azzardato una data precisa, e senza badare a retropensieri: il 1° aprile, il giorno del pesce-scherzo nella città delle burle e degli sfottò. L’ho ricostruita così sul “Tirreno”: «Lo spettacolo di Grillo è rimasto in cartellone al Goldoni per quattro serate a partire da lunedì 29 marzo. Siccome è lo stesso Grillo a dire che Casaleggio l’ha incontrato «per la prima volta una sera di aprile a Livorno durante il mio spettacolo “Black Out”», è probabile che il faccia a faccia che avrebbe cambiato il corso della storia politica del popolo a 5 stelle sia avvenuto in occasione dell’ultimo fra gli appuntamenti al Goldoni».

All’inizio non ha detto bene a Casaleggio: lo fanno fuori dal vertice di Webegg (Olivetti più Finsiel). E nel voto in agenda poche settimane dopo, il “guru” si presenta in una lista civica che ha come riferimento un tipo che pare avesse simpatie filo-Berlusconi (lui ha sempre negato ogni legame partitico) e becca a malapena sei preferenze (ma è un paesino piccolo). In quella stessa tornata elettorale, a Livorno i “rossi” invece fanno il pieno con il sindaco ds Alessandro Cosimi che trionfa al primo turno e Rifondazione comunista secondo partito (oltre l’11%). Poi invece dieci anni più tardi, il terremoto: forse una parentesi, di certo la riprova che il consenso ora è talmente fluido che niente è scontato, niente è per sempre.

DALL’ ARCHIVIO: UNA STORIA DI QUESTO BLOG

Nelle foto, dall’alto: una immagine azimutale dell’interno del teatro; il francobollo commemorativo del centenario del congresso socialista al Goldoni; il tetto trasparente restaurato negli anni ’90; la visita ufficiale di due presidenti della Repubblica, Mattarella nel 2020 e Ciampi all’inaugurazione post-restauro nel 2004; una panoramica di palchi, palchetti e palco reale (le immagini sono tratte dal web e ritenute di libero uso, se vi fossero dei problemi segnalateceli nei commenti così che possiamo immediatamente rimuoverle)

2 risposte a “Il Goldoni dei destini incrociati: la scissione del Pci e il conclave Cgil, poi espugnato dal fascismo, e la scintilla fra Grillo e Casaleggio”

  1. Carissimo Mauro, nell’esprimerti la mia gratitudine per questa ricostruzione storico/politica del goldoni ti faccio i miei complimenti per la puntualità ricostruttiva e per la mirabile sintesi. Per uno come me che è a Livorno da poco tempo, risulta indispensabile avere documenti come i tuoi per poter capire una città dalle molteplici radici storiche e dalle spesso controverse vie di sviluppo sociale e artistico. Grazie davvero.

    "Mi piace"

    1. Sono arcicontento se la cosa ti è piaciuta, lo sono due volte se può esserti anche utile. Alla prossima storia.

      "Mi piace"

Lascia un commento